Ex malo bonum, dicevano i latini. “Mafia Capitale” almeno un effetto positivo lo ha
prodotto. Infatti, ha raffreddato i bollenti spiriti di quelli che “senza le preferenze” non c’è
democrazia. Laddove, come è noto, il voto di preferenza è pressoché sconosciuto nei
sistemi elettorali della maggioranza delle democrazie occidentali.
“Il Paese ostaggio del voto di scambio”: così la Repubblica titola oggi un pregevole e
documentato articolo di Federico Fubini. Era ora! Speriamo che sia l’inizio di un
“ravvedimento operoso” del quotidiano di Ezio Mauro, da sempre schierato in prima fila
proprio con quelli che “senza le preferenze”…
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Il Pd ha promesso di aprire una riflessione seria sugli inconvenienti del metodo delle
primarie. È tanto necessaria quanto urgente. Le primarie hanno costituito il tentativo più
organico fatto a sinistra per fronteggiare la crisi dei partiti di massa. Ma – prive di regole o
con regole alquanto garibaldine- sono via via diventate il brodo di coltura di lotte laceranti
tra capi locali e correnti nazionali, per l’affermazione di ambizioni non sempre legittime e
eticamente edificanti.
La verità è che, quando sono state decise, forse non se ne sono previsti tutti gli esiti
virtuali. Compreso quello – paradossale – che gli elettori, per partecipare e per contare di
più, talvolta finiscono con l’essere utilizzati come truppe di assalto contro nemici a loro
invisibili da ufficiali senza scrupoli. La radice dei fenomeni di malaffare e di corruzione, che
hanno gettato un’ombra pesantissima sull’irreprensibilità dei democratici di Matteo Renzi,
sta qui. Ma non c’era bisogno di aspettare il Procuratore Pignatone per scoprirlo.
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Le chiavi di lettura dell’inchiesta del pool di pubblici ministeri diretti da Pignatone possono
essere diverse, e nemmeno quella del Procuratore generale va presa come oro colato.
Tuttavia, non condivido chi lo critica perché vuole fare sia il giudice che lo storico,
invadendo quindi un campo che non è il suo.
In fondo, sia il giudice che lo storico ricostruiscono e accertano gli stessi fatti sul piano
linguistico, semantico e logico. In questo senso, il giudizio di Hannah Arendt resta un
riferimento insuperabile: la ricerca della prova unisce i due mestieri, mentre li divide solo la
differente valutazione del contesto sociale di un atto criminoso. Per il giudice rappresenta
una circostanza attenuante o aggravante, per lo storico serve a illuminarlo.
Semmai, c’è da interrogarsi sulle ragioni per cui nella discussione pubblica domestica non
si è ancora sviluppata un’autentica cultura delle prove, indispensabile all’amministrazione
della giustizia in uno Stato di diritto. Qui il discorso si fa etico-politico: forse gli italiani si
sono abituati da lungo tempo ad un’idea di verità ridotta all’accordo tra le parti in gioco,
specchio dei contingenti rapporti di forza o di convenienze del momento.