In quel di un piccolo paese di quattro case e molti campi coltivati a granturco nel Veneto orientale, viveva un giovanotto allora ventiduenne, figlio di un ferroviere. Pochi studi alle spalle, molti lavoretti saltuari come bracciante agricolo quando la stagione lo consentiva e giovane di bottega dell’unico ciabattino del paese, se di bottega possiamo dire, trattandosi di una stanza attigua al tinello di casa dove la gente portava le proprie scarpe a risuolare, risuolare e risuolare ancora.
Fin da ragazzo, non appena gli ormoni iniziarono a presentargli il conto di un improvviso risveglio, provava una simpatia per una giovane ragazza di bella presenza che viveva con la famiglia nella casa attigua a dove maneggiava colla, chiodi e martello. Il padre della giovane aveva un piccola impresa edile. Costruiva, sistemava o allargava case coloniche. Aveva peraltro avuto in eredità qualche ettaro di terreno che coltivava a vigna, alternando il lavoro da manovale con quello nei campi. E produceva vino che – dicono – fosse di buona qualità. Una parte la teneva per sé, una parte per il mezzadro che curava la sua campagna, una parte veniva venduta a chi ne faceva richiesta. Un piccolo commercio, a quei tempi probabilmente senza autorizzazioni, fatture e quant’altro. Insomma, in quella che era una generale situazione post bellica di pochi mezzi e soldi, la famiglia dell’imprenditore, manovale e contadino era considerata benestante.
Correva l’anno 1953. Fu allora che il giovanotto si fece coraggio e si presentò una domenica mattina a chiedere la mano dell’amata. Recuperati da qualche parte un abito usato, una camicia bianca e una cravatta, attese il padre della ragazza all’uscita della chiesa, finita la messa. Il genitore lo conosceva bene e lo aveva in simpatia. Sapeva che era un giovanotto sveglio, con voglia di lavorare sebbene fosse pressoché squattrinato e non avesse la benché minima idea di come avrebbe potuto garantirgli il futuro sostentamento della figlia. Passarono alcuni mesi. Il giovane poteva ora frequentare la casa della ragazza come fidanzato ufficiale.
Casualità volle che un giorno, un vecchio amico del padre della promessa sposa, uno emigrato anni prima che aveva aperto un ristorante nel mitologica Milano, si trovasse a far visita all’amico mentre trascorreva come d’abitudine le vacanze d’agosto al paese. Tra un bicchiere e l’altro, decise che avrebbe proposto quel vino che stava bevendo – quello prodotto dal manovale contadino – nel suo ristorante e ne acquistò una partita. Si trattava ora di organizzare il trasporto delle damigiane dal paese alla grande città. E qui nacque l’idea di affidarne il compito al futuro genero, il quale si dimostrò subito incuriosito ed intimorito per l’incarico ricevuto, accettandolo con entusiasmo.
Qualche tempo dopo, alla guida di una giardinetta stracarica partì e si ritrovò molte ore dopo nella grande città. Fece la sua consegna, incassò il denaro e rimase ospite del ristoratore per alcuni giorni che gli consentirono di vedere, conoscere cose e situazioni per lui impensabili e meravigliose. Pensò a quanti ristoranti, negozi, osterie, drogherie e quante persone ci fossero in quella città. Gli venne un’idea: avrebbe potuto vendere vino, a tutti. Tornò al paese e la descrisse al futuro suocero, al quale piacque e addirittura lo finanziò per l’acquisto di un mezzo di trasporto.
Correva l’anno 1955. A Milano, viveva a pensione in una stanza con bagno in comune. Batteva la città, si costruì un primo giro di clientela con l’aiuto del compaesano ristoratore e poi via via con il passaparola e le referenze. Ci sapeva fare, le vendite andavano bene e – correva l’anno 1956 – una domenica di giugno finalmente sposò la giovane amata. Si trasferirono nella metropoli, vivendo sempre in una stanza in affitto sui bastioni di Porta Volta. Mentre lui girava per clienti, lei nei primi tempi contribuiva al bilancio familiare facendo la cameriera nel ristorante dell’amico del padre. Non chiesero mai aiuti, di nessun tipo, alla famiglia di lei.
Un paio d’anni dopo, firmando quintali di cambiali, senza mutuo, riuscirono ad acquistare la loro prima casa per una cifra che si aggirava sui nove milioni di lire. Una discreta cifra per quei tempi, ma che non li spaventò ed ebbero ragione, visto che in pochi anni onorarono il debito ed iniziarono anche altre attività. Nel 1961 ebbero il loro primo ed unico figlio, che in quella casa ci ha trascorso anni meravigliosi.
Ecco, è una storia di altri tempi, di giovani che avevano sogni e speranze. Di quando una città come Milano rappresentava una opportunità e un’idea di poter riuscire a realizzare un progetto di vita, nonostante intimorisse chi, come quel giovane, aveva visto solo campi di granturco, vitigni e tante scarpe da risuolare.
Ed è anche un personalissimo messaggio ed augurio per un Felice Anno a quei giovani italiani che dovessero leggerla e che oggi magari si ritrovano a fare il lavapiatti a Londra o a servire in un ristorante di Dubai.