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Perché in Usa e Inghilterra le economie sono più pimpanti rispetto all’Europa

Politica fiscale più flessibile, politica monetaria più aggressiva, ricapitalizzazione delle banche: così Usa e Inghilterra hanno tenuto a freno gli effetti della crisi meglio di Europa e Giappone. Anche se nessuno è riuscito ad arginare la crescita del debito pubblico e questo potrebbe rappresentare un problema nel caso una nuova crisi economica si affacciasse.

I MERITI DELL’ALLEGGERIMENTO QUANTITATIVO

A scriverlo è il Wall Street Journal, secondo cui le divergenti politiche economiche adottate dalle economie avanzate del mondo offrono un’utile lezione per i leader globali che stanno cercando di traghettare i loro Paesi fuori dalla crisi. Qualche dato? I tassi di disoccupazione subito dopo la crisi sono saliti al 10% negli Usa e all’8,5% in Uk, ma ora sono scesi rispettivamente al 5,8% e al 6%. Lo stesso tasso in Eurozona è arrivato negli ultimi anni all’11,5% mentre l’economia giapponese è in recessione.

Il primo punto è per il quotidiano economico nelle politiche del quantitative easing: le banche centrali di America e Gran Bretagna hanno adottato da subito aggressive politiche monetarie. Il Giappone si è invece lasciato tentare da incrementi dell’imposta sui consumi per contenere il deficit di bilancio, mentre l’Europa si è mossa troppo lentamente per affrontare la debolezza delle banche e si è immessa in un poco fruttuoso regime di austerità fiscale.

Il messaggio è chiaro: l’alleggerimento quantitativo aiuta ad affrontare una crisi persistente. “Quando i tassi sono quasi zero, le banche centrali perdono uno strumento che tipicamente impiegano quando l’economia è debole: la riduzione nel breve periodo dei tassi di interesse”, spiega il Wsj. “La Federal Reserve, che ha tagliato i tassi di breve termine fino quasi allo zero a fine 2008, ha aggirato il problema con la politica del quantitative easing, o QE. Lo scopo era abbassare i tassi di interesse sul lungo termine e spingere gli investitori verso altri asset, come le azioni, per stimolare l’economia”.

La Fed ha avviato il primo programma di QE nel 2009 e la Gran Bretagna ne ha attuato uno simile poco dopo il manifestarsi della crisi. La Banca del Giappone ha abbracciato un utilizzo aggressivo di questo strumento solo nella primavera del 2013, mentre la Banca centrale europea sta cominciando solo adesso a usarlo.

“Abbiamo imparato che gli strumenti non convenzionali sono efficaci quando i tassi di interesse si avvicinano allo zero”, ha affermato Stephen Cecchetti, professore di economia della Brandeis International Business School ed ex economista della BIS (Banca dei regolamenti internazionali), che ha tenuto un atteggiamento scettico verso il QE. “Nel 2008 nessuno lo avrebbe detto con certezza”.

LE POLITICHE FISCALI

Anche le politiche fiscali rappresentano un’utile lezione. Il Giappone ha mantenuto un altissimo debito pubblico, in media 1,35 volte il Pil, mentre Usa e Uk si sono tenuti su un valore di 0,8 volte l’output nazionale, secondo dati del Fondo monetario internazionale. Ora tutto quel debito interferisce con le iniziative del primo ministro Shinzo Abe per portare l’economia giapponese fuori dalla recessione. A novembre, il governo ha riferito che l’economia giapponese si è contratta per il secondo trimestre consecutivo soprattutto a causa dell’aumento dell’imposta sui consumi adottata proprio per cercare di far scendere il debito.

Al contrario in Usa e Uk la politica fiscale è stata più flessibile che in Europa e Giappone. All’inizio i deficit pubblici sono aumentati, ma poi sono gradualmente diminuiti dopo la crisi. Tuttavia i politici americani non sono riusciti ad adottare sistemi per tenere sotto controllo il deficit nel lungo periodo e questo potrebbe essere un problema se si presentasse una nuova crisi.

RICAPITALIZZARE LE BANCHE

L’economista Cecchetti nota anche che gli esiti diversi di Usa e Europa di fronte alla crisi si devono in parte al fatto che le due regioni hanno adottato politiche diverse sulla ricapitalizzazione delle loro banche. Il punto è: portare i capitali nelle banche, non costringerle a ridimensionarsi.

Uno studio della BIS mostra che le banche americane hanno aumentato il capitale di 203 miliardi di dollari tra fine 2009 e fine 2012, mentre le banche europee lo hanno aumentato di 108 miliardi di dollari. Nello stesso periodo, le banche europee hanno ridotto gli asset rischiosi di 1.500 miliardi di dollari, quelle Usa solo di 154 miliardi di dollari.

“Banche deboli non prestano, consumatori molto indebitati non spendono e le aziende con scarse prospettive non investono”, stigmatizza Cecchetti.

LA SITUAZIONE ITALIANA

Che l’eurozona sia lontana dall’uscire dalla crisi viene sottolineato anche dagli osservatori di casa nostra. L’Italia aveva un debito pubblico pari al 116,4% del Pil nel dicembre del 2011 e alla fine di quest’anno arriverà (secondo la Commissione europea) al 132,2% del Pil. La Spagna, nello stesso arco di tempo, è passata dal 69% al 98,1%. Idem per la Francia, salita dall’85 al 95,5% del Pil. Dalla fine del 2011 la disoccupazione è salita in Italia dall’8,4% al 12,6%, in Spagna dal 21,4% al 24,8%, in Francia dal 9,2% al 10,4%. Questo ha contratto i consumi, soprattutto in Italia e Spagna.

Intanto, l’accumulo di crediti deteriorati nei bilanci delle banche le ha fatte andare a corto di capitale, causando un credit crunch di proporzioni enormi: in Europa dal dicembre 2011 (dati Rbs) sono andati in fumo 594 miliardi di euro di crediti bancari alle imprese, 100 dei quali nella sola Italia. Questo ha congelato gli investimenti e aumentato ulteriormente la disoccupazione. La crisi è aggravata dalla politica di austerità varata da tutti i governi.

Gli investitori accettano, per comprare i titoli di Stato di Italia, Spagna e Francia, rendimenti sempre più bassi perché scommettono sul fatto che la Bce, nonostante le resistenze della Bundesbank, inizi a comprare titoli di Stato e a stampare moneta in grande quantità, adottando proprio il QE. Ma il QE può avere in Europa gli stessi risultati che in America? “Il problema del credit crunch è molto più profondo. E nasce da un lato da banche troppo deboli patrimonialmente per erogare credito. La speranza che il quantitative leasing della Bce possa rilanciare da solo l’economia desta qualche dubbio. Il ‘bazooka’ di Draghi aiuterebbe, certo, ma se non viene affiancato da politiche fiscali più espansive (cioè da tasse più basse), da una politica a favore degli investimenti e da riforme strutturali, difficilmente potrà cambiare le sorti dell’Europa”, si legge sul Sole 24 Ore.

LE RIFORME STRUTTURALI

Sull’alleggerimento quantitativo gli economisti sono da sempre divisi. Il Wsj scrive che i possibili effetti nefasti del QE— come un aumento incontrollato dell’inflazione o una nuova bolla finanziaria – non si sono ancora materializzati; l’inflazione è sotto il target del 2% in tutte e quattro le maggiori economie mondiali, ma è più vicina al target in Usa e Uk mentre ne è più lontana in Eurozona e Giappone. E anche se alcune aree dei mercati finanziari appaiono sotto stress, non ci sono segnali evidenti di bolle pericolose. I risultati ottenuti da Usa e Uk dimostrarebbero che il QE aiuta i Paesi che lo adottano.

Non la pensa così Klaus Schwab, fondatore ed executive chairman del Forum economico mondiale, che in un’analisi di inizio anno scriveva: “La politica dell’alleggerimento quantitativo perseguita dalla Federal Reserve americana ha avuto pesanti effetti sulle valute di altri Paesi e sui flussi di capitali da e verso i mercati emergenti. Quando il QE è stato avviato, si presentava come la politica monetaria meno fallace a disposizione e ha allontanato lo spettro di una catastrofica depressione globale. Ma oggi tutti i suoi difetti sono emersi con evidenza e la fine del ricorso all’alleggerimento quantitativo nel 2014 potrebbe alimentare ulteriori incertezze”.

Secondo Shwab, la politica dell’alleggerimento quantitativo della Fed, e le sue varianti perseguite altrove, hanno causato una drammatica espansione dei bilanci delle principali banche centrali (dai 5.000-6.000 miliardi di dollari prima della crisi ai 20.000 miliardi oggi), creando nei mercati finanziari una vera dipendenza dal “denaro facile”. Questo a sua volta ha portato a una ricerca globale del rendimento, a un artificiale pompaggio dei prezzi degli asset e a un’erronea distribuzione dei capitali. Come risultato, più dura il QE, maggiore è il danno collaterale prodotto nell’economia reale. La preoccupazione più diffusa oggi è che quando la Fed comincerà a ridurre il ricorso all’alleggerimento quantitativo e la liquidità di dollari si prosciugherà sui mercati globali, torneranno a galla i problemi e gli squilibri strutturali. Dopotutto, in molte economie avanzate le riforme per favorire la competitività restano allo stato embrionale, mentre il rapporto tra il totale del debito pubblico e privato e il Pil in questi Paesi è oggi del 30% maggiore che prima della crisi.

La soluzione più di lungo periodo appare perciò nelle riforme strutturali o, come le definisce Schwab “riforme di seconda generazione, che sono per loro natura vitali per la crescita di lungo termine”. Sono molto più difficili da realizzare, ma più fruttuose: “L’eliminazione dei sussidi, le riforme del mercato del lavoro e della giustizia e efficaci misure anti-corruzione hanno una forte valenza politica e spesso vengono bloccate da potenti interessi costituiti”, scrive Schwab, ma potrebbero essere la strada da percorrere per uscire dalle strategie di emergenza e ottenere risultati più solidi e duraturi.



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