“Responsabilità di proteggere”. È questa la “formula” proposta dalla Santa Sede alla comunità internazionale, soprattutto in questi ultimi mesi che hanno visto affermarsi un nuovo modello di strategia terroristica basata sullo smembramento degli Stati nazionali attraverso la conquista di territori sempre più ampi.
La minaccia transnazionale portata dal sedicente Stato islamico (Is) in Iraq e in Siria – e la concreta possibilità che essa si diffonda in altri Paesi – sembra avere colto di sorpresa le diplomazie delle grandi potenze. Quanto meno le ha messe di fronte alla constatazione del fallimento delle politiche portate avanti dopo l’11 settembre 2001. Più in generale, complica non poco la possibilità di interventi diretti che rischiano di compromettere equilibri regionali già fragilissimi. Un’ipotetica azione militare di terra per difendere le minoranze brutalmente attaccate dai miliziani sunniti potrebbe infatti essere interpretata come una violazione della sovranità dei Paesi interessati. E anche una possibile iniziativa presentata al Consiglio di Sicurezza resterebbe immancabilmente impigliata nella rete dei veti incrociati.
Da questa impasse la comunità internazionale, o almeno parte di essa, cerca di uscire delineando strategie come quella in atto contro l’Is. L’obiettivo, in fondo, è non creare eccessiva irritazione nei Paesi che, a vario titolo, potrebbero considerare lesi i propri interessi. Come risultato si hanno quindi iniziative non mirate – quali possono essere i raid aerei – che esigono un prezzo altissimo in termini di vite umane, anche civili, e che, nella migliore delle ipotesi, richiedono tempi di attuazione lunghissimi.
Anche nel recente passato, in realtà, le grandi potenze si sono mostrate restie a intervenire “solo” per difendere le popolazioni civili strette nella morsa della guerra. Laddove presunte ragioni di diritto internazionale sono state invocate per interventi volti a rovesciare regimi percepiti come minacciosi, autentiche ragioni umanitarie non sono state sufficienti a fare scattare interventi in aree come il Darfur – dove da decenni si consuma una strage silenziosa – o i Balcani degli anni Novanta. Era quello il periodo in cui nacque la definizione di “ingerenza umanitaria” per giustificare possibili azioni a difesa dei civili assediati di Sarajevo. Ma parole erano e parole rimasero, come testimoniano il martirio della capitale della Bosnia ed Erzegovina e stragi di eccezionale brutalità come quella perpetrata a Srebrenica. Nei Balcani non c’è petrolio, dissero allora i maligni per spiegare la mancanza di un intervento per bloccare lo spargimento di sangue. E in effetti, nel corso degli ultimi decenni, è sembrato che molte iniziative internazionali non fossero motivate da nobili interessi.
Si tratta insomma di un panorama dal quale le popolazioni civili, con le loro umili vite, spariscono del tutto. E in fondo nemmeno gli analisti di politica internazionale – attenti come sono agli umori delle cancellerie – prestano loro molto attenzione. Non è quindi retorica affermare che quella della Santa Sede è una delle poche voci che parla in difesa di coloro che rischiano di restare stritolati da meccanismi più grandi. Il famoso intervento di papa Francesco con la richiesta di una giornata di preghiera e di digiuno per la pace in Siria – insieme con una lettera inviata al G20 – è giunto proprio nel momento in cui i giochi sembravano ormai fatti e un intervento per abbattere il regime di Al Assad appariva ormai imminente. Un intervento, va ricordato, ufficialmente motivato dal ricorso ad armi chimiche nel conflitto siriano, la cui responsabilità non è stata tuttavia mai appurata con certezza. Non è possibile affermare con sicurezza se le parole del Papa siano servite a scongiurare una guerra dalle conseguenze regionali davvero imprevedibili. Ma certamente hanno contribuito a fare luce sulle dinamiche che, a volte, conducono ai conflitti armati.
La “responsabilità di proteggere” che il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, ha recentemente portato all’attenzione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite a nome della Santa Sede, è ben altra cosa. Essa comporta una concreta vicinanza alle popolazioni più deboli e non solo meri esercizi retorici durante qualche missione all’estero. Quello che si richiede, in sostanza, è un approccio autenticamente multilaterale alle crisi: più potere quindi alle istanze internazionali – come appunto l’Onu – che devono per questo essere sottratte al rito ricattatorio dei veti. E non necessariamente questo nuovo approccio deve condurre a interventi armati. Certo, quando di tratta di bloccare l’aggressore, bisogna agire rapidamente. Ma nella sua multilateralità, la “responsabilità di proteggere” enunciata dal segretario di Stato vaticano, comporta l’autentico coinvolgimento nei processi negoziali di tutte le parti in causa, anche di quelle potenziali, nelle situazioni di conflitto.
I detrattori di questo approccio, soprattutto i fautori della cosiddetta “guerra tra civiltà”, potranno obiettare che si tratta di processi lunghi e non sempre destinati al successo. Ma in fondo se multilateralismo e legalità fossero stati i cardini dell’azione politica in ambito internazionale, lo stesso fenomeno terroristico non avrebbe avuto, con ogni probabilità, ragione di essere. E poi, come si usa dire, non è mai troppo tardi.
Giuseppe Fiorentino è capo servizio internazionale de L’Osservatore Romano
Articolo tratto dal numero 98 (Dicembre 2014) della rivista Formiche