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Perché l’Arabia Saudita non rimpiangerà troppo re Abdullah

All’alba del 23 gennaio è morto Re Abdullah, salutato dalla corte e dalla gran parte degli alleati ed amici occidentali come un sovrano innovatore, riformista e amante della pace.
Lascia tuttavia un regno alquanto traballante sotto il profilo della stabilità, mettendolo in mano al fratellastro Salman – ottantenne e non in salute – nel tentativo di procrastinare quanto più a lungo possibile l’incubo di tutti i notabili sauditi della seconda generazione: l’arrivo al potere dei “giovani” della terza generazione.

Facciamo un passo indietro. L’Arabia Saudita di Abdullah, con buona pace degli entusiasti sostenitori occidentali, non verrà ricordata né per aver fatto progredire la libertà della propria società, né tantomeno per aver contribuito alla sicurezza internazionale.
L’Arabia Saudita ha da tempo due grandi timori, praticamente due ossessioni – sotto il profilo della sicurezza e della stabilità. Ed entrambe vanno a minare il principio stesso alla base dello Stato saudita, e cioè il dogmatico approccio al ruolo assoluto ed ereditario della monarchia degli Al Saud.

Le due minacce esistenziali si chiamano quindi Fratellanza Musulmana e Repubblica Islamica dell’Iran, portatrici di un modello politico e sociale che – sebbene ancora molto lontano dal concetto ideale di democrazia – sono comunque promotrici di un modello politico partecipativo e “dal basso”, o “bottom-up”. Che si contrappone in modo stridente, al contrario, alla visione delle monarchie assolute del Golfo.
La Fratellanza Musulmana è stata quindi trasformata in breve tempo nello spauracchio del jihadismo internazionale – inteso quindi dagli europei come minaccia esistenziale per la loro sicurezza – mentre l’Iran è diventato il portatore sano di una nuova interpretazione dell’Olocausto, questa volta su scala globale grazie al ricorso alle armi nucleari.

In nome di queste due minacce, quindi, si è dato fuoco alle polveri in tutto il Medio Oriente, lamentando la prematura dipartita di alcuni sistemi autoritari e antidemocratici che da tempo tenevano a bada le proprie società – come nel caso della Tunisia di Ben Ali, della Libia di Gheddafi, dell’Egitto di Mubarak e dello Yemen di Saleh – cercando di scardinarne un altro senza grandi successi – la Siria di Bashar al Asad – e polverizzando in meno di tre anni le ambizioni di una società araba che aveva per la prima volta sperimentato l’ebrezza del voto libero e senza maggioranze bulgare.

Il tutto accompagnato da una nuova generazione di jihadisti – sulle cui sorgenti finanziarie sarebbe ora che i pluriblasonati sistemi di intelligence internazionali andassero ad indagare – che ha fatto impallidire il ricordo di Osma bin Laden e della sua Al Qaeda.
Sul piano domestico, al contrario, l’Arabia Saudita è rimasta del tutto insensibile alle – poche – richieste della comunità internazionale relative al rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali. Non esiste accesso al potere, la società è organizzata anacronisticamente secondo valori e princìpi che penalizzano fortemente i diritti delle donne, delle minoranze religiose e delle libertà individuali. Nel silenzio più assoluto degli attivisti che invece sull’Iran, sulla Siria, su Hamas, sulla Fratellanza Musulmana e così via non perdono occasione – spesso in modo corretto – di segnalare ogni minimo errore o violazione dei diritti e delle libertà.

Questa è l’Arabia Saudita che stanotte Abdullah ha passato nelle mani di Salman.
Il nuovo Re ha un grande pregio. È riconosciuto da tutti come il principale e miglior mediatore all’interno della famiglia reale. Colui cui tutti si rivolgono nel momento in cui – come spessissimo accade – interessi contrastanti generano contrasti all’interno della sterminata e litigiosa famiglia reale.
Salman è uno dei quattro superstiti del longevo e famoso gruppo di potere conosciuto in Arabia Saudita come dei “sette Sudairi”, ovvero figli dello stesso padre – Re Abdulaziz – e della stessa madre – Hassa bint Ahmed Al Sudairi. Una combinazione assai rara quella della consanguineità, all’interno di ceppi familiari dove le figure maschili hanno spesso più mogli, dando vita a progenie articolate, numerose e molto litigiose.

I Sudairi – di cui Re Abdullah non era parte – hanno governato il paese attraverso alterne fasi di solidarietà e contrasti, riuscendo tuttavia a mantenere più o meno salda e coesa l’identità familiare e la linea dell’assolutismo, attraverso passaggi di potere più o meno coordinati ed accettati.
Con l’allargamento della sfera demografica, la terza generazione ha del tutto perso questa capacità e questa volontà di mantenere salda e dritta la barra del timone, lanciandosi in personalismi ed avventurismi politici legati all’ambizione e al perseguimento di interessi non più rintracciabili nell’alveo di un gruppo comunque coeso della famiglia Al Saud.

Ne era ben conscio l’ex sovrano, che in questa disputa per l’accesso al potere da parte della terza generazione vede coinvolti ben due figli e il fratello Muqrin – oggi asceso al rango di crown prince – e Mutaib, alla guida della potente macchina del Ministero della Guardia Nazionale.
In aggiunta a tutto ciò, gli esponenti della famiglia reale più favorevoli ad una visione aperta ed in un certo qual modo democratica del regno – come il principe Ahmed o il principe Talal – sono stati sistematicamente emarginati durante il regno di Abdullah, facendo venir meno anche quelle spinte sociali che il paese invece a gran voce inizia a chiedere.

Abdullah è stato quindi saggio a favorire una sua successione non ai figli, o comunque ad altri esponenti della terza generazione, ma ad un politico navigato ed esperto come Salman, nell’ottica di tenere a bada le diatribe e le visioni ultraradicali sulla sicurezza e lo sviluppo sociale dei “giovani” eredi al trono.
Il problema è che Salman ha ottant’anni, una salute precaria e poca capacità politica. Potendo di fatto nella migliore delle ipotesi fungere solo come ulteriore elemento di transizione, in attesa di quella resa dei conti che prima o poi verrà galla con l’arrivo della terza generazione politica saudita.



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