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Inps, ecco le idee di Boeri sulle pensioni

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Tino Oldani apparso su Italia Oggi,il quotidiani diretto da Pierluigi Magnaschi.

Nel 2015 anche il governo di Matteo Renzi, come i precedenti di Mario Monti ed Enrico Letta, si propone di usare le pensioni per fare cassa, impoverendo ancora di più il ceto medio. Lo confermano i fatti. Alla vigilia di Natale, la scelta dell’economista bocconiano Tito Boeri come nuovo presidente dell’Inps, presentata da alcuni come una sorpresa, è stata invece il frutto di una logica politica ferrea. Tra gli economisti, Boeri è quello che più si avvicina alle tesi di Yoram Gutgeld in materia di previdenza. E poiché Gutgeld, manager ex McKinsey, oggi deputato Pd, è il consigliere economico più ascoltato da Renzi, ecco spiegato come mai il nome di Boeri non è piovuto per caso su Palazzo Chigi. Anzi.

Un confronto tra le tesi di Gutgeld e di Boeri è illuminante. Giusto un anno fa, in un saggio (Più uguali, più ricchi, Rizzoli), Gutgeld definiva “inique” e “privilegio ingiustificato” le pensioni calcolate con il metodo retributivo, in vigore parzialmente fino alla riforma Fornero, in quanto assicurano un assegno previdenziale superiore a quello che si avrebbe con il solo metodo contributivo. Per questo, Gutgeld riteneva opportuno e giustificato un intervento legislativo di tipo retroattivo, che tagliasse “in tutto o in parte” le pensioni retributive sopra una certa soglia, così da ridurre la spesa previdenziale dello Stato.

Il fatto che la Corte costituzionale avesse già definito incostituzionale il “contributo di solidarietà” sulle pensioni oltre i 90 mila euro (governo Monti), sconsigliando di spremere le cosiddette “pensioni d’oro” per fare cassa, non impedì che la tesi di Gutgeld facesse proseliti. Così il 14 gennaio 2014 il sito lavoce.info pubblicava un articolo a più mani, firmato da Tito Boeri, Fabrizio Patriarca e Stefano Patriarca, nel quale si suggeriva al governo di ricalcolare tutte le pensioni retributive in essere, evidenziare lo squilibrio di ciascuna rispetto al calcolo contributivo, e colpire tale squilibrio in misura crescente: taglio del 20% dello squilibrio per le pensioni da 2 mila a 3 mila euro lordi al mese; del 30% per quelle tra 3 mila e 5 mila; del 50% per quelle sopra i 5 mila. Il tutto avrebbe fornito un gettito di 4,2 miliardi, con l’avvertenza che non sarebbe stato un contributo una tantum, ma un taglio permanente della spesa previdenziale.

Fin dai primi controlli, fu subito chiaro che l’idea di colpire come “pensioni d’oro” gli assegni di 2 mila euro lordi faceva a pugni con la realtà, soprattutto se confrontati con ben altri privilegi annidati nella spesa pubblica e documentati da Carlo Cottarelli, in testa gli sprechi delle Regioni, quelli delle 11 mila società controllate dagli enti locali, per non parlare delle indennità dei politici e dei superburocrati. A Renzi, poi, deve essere bastato dare un’occhiata al numero dei vitalizi Inps tra 2 mila e 3 mila euro (1 milione 281 mila pensionati), per capire quanto fosse impopolare inimicarsi così tanti elettori proprio alla vigilia delle europee. Così le idee di Gutgeld e di Boeri furono riposte in un cassetto, ma non dimenticate.

Ora ci risiamo. Dopo Natale, mentre il premier Renzi negava in un’intervista al Quotidiano nazionale la possibilità di interventi sulle pensioni, Gutgeld, con altrettanta sicurezza, in un’intervista a Repubblica affermava l’esatto contrario: nel 2015 il tema della previdenza sarà ai primi posti nell’agenda del governo, sia pure con un approccio più furbo, meno punitivo di quello prospettato un anno fa. Ora Gutgeld non dice più che bisogna tagliare le pensioni retributive in essere, ma quelle future, pagando “agli ultracinquantenni che hanno perso il posto l’assegno sulla base del sistema contributivo, e solo su quello, non un euro di più”. Un recupero mascherato delle pensioni di anzianità, ma più povere, con la rinuncia alla quota retributiva eventualmente maturata: in sostanza, un’ulteriore riduzione del welfare, dopo quella imposta da Monti-Fornero, in linea con le terapie della Troika, e più facile da proporre in seguito anche per le pensioni in essere.

Che si tratti di una scelta errata sul piano tecnico e socialmente iniqua, lo ha spiegato ieri sul Corriere della Sera Alberto Brambilla, uno dei pochi esperti veri di previdenza. Su 16,5 milioni di pensionati Inps, ben 8,6 milioni percepiscono prestazioni di modesta entità, “totalmente o parzialmente a carico della fiscalità generale”, come gli 825 mila che hanno la pensione sociale e i 4,7 milioni che ricevono l’integrazione al minimo. Vale a dire pensionati che non hanno pagato né tasse né contributi, dunque evasori, ma che ricevono, essi sì, una pensione regalata dai partiti e a carico delle future generazioni. Mentre le cosiddette “pensioni d’oro”, quelle retributive sopra i 3 mila euro lordi al mese (1.700 netti), spiega Brambilla, sono state pagate con i contributi e le tasse dagli interessati, contribuenti ligi ai doveri. Dunque, tagliare questi assegni sarebbe non solo l’ennesima conferma della tesi di Riccardo Ruggeri: “Impoverire la classe media, sedare quella povera”, ma peggio: una macelleria sociale degna della Troika. Perciò inaccettabile.

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