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Un caffè con il sindacato

Basilicata, Dicembre 2014.

Adoro il Natale. Non certo per le rituali giaculatorie sulla bontà doverosa e neppure perchéle mandibole sempre all’opera segneranno il tempo ed il ritmo delle vacanze. Il Natale lo adoro perché, come da tradizione famigliare, tra il mio primo zio ed il secondo aprirà proprio a metà strada il dibattito politico. Mio padre gli farà il controcanto e mia madre comincerà a sbuffare.L’attualità si mischierà al contemporaneo e, prima o poi, arriverà a toccare i temi decisivi della storia di questo paese.A ben pensarci, uno degli argomenti che va sempre per la maggiore è “il sindacato”. Malo pensiero parlarne male, cattivissima idea beatificarlo. Ma che importa? Guardandomi con aria seriosa e disincantata, mio zio, Paolino, si perderà nel suo infinito gesticolare ripetendo come sempre: “Sono stato uno dei primi rappresentanti sindacali all’A.N.I.C. .Ho lottato per un lavoro dignitoso e non ho mai fatto sconti né favori a nessuno. Quando qualcuno ha deciso di calare le sue decisioni dall’alto, ho lasciato. Cosa tanto buona quanto mercificabile, il sindacato. Detto tra noi, per me è morto con Luciano Lama”.

Ecco. Questo breve racconto si insinua, ogni anno, tra le pieghe della tovaglia nuova. Non me ne stanco mai perché immagino che mio zio per un intero anno si riempia di disincanto per sfogarsi, educatamente, a Natale. D’altronde ognuno lo vive come meglio crede.

Il 2014, anche se forse questo per qualcuno è passato inosservato, è stato un anno durissimo per i sindacati italiani e, soprattutto, per la C.G.I.L. . Il Governo presieduto da Matteo Renzi ha apertamente e duramente bistrattato e minato, forse definitivamente, l’ultimo avamposto di rappresentanza sociale. Il Jobs Act, che non staremo qui certo a commentare, è stato imposto dall’altro senza rispettare quel semplice e schematico modello di “Black Box” – input ed output – “, tanto caro alla Scienza politica.

Così per me, per poter comprendere lo stato della situazione, gioco forza, zio Paolo non bastava più. Il romanticismo del convivio non bastava più. Ho così deciso di parlare con un dirigente sindacale e farmi raccontare, in una chiacchierata al bar, questo “Black 2014”.

In un pomeriggio di fine anno, segnato da un vento teso, mentre l’aria sottile e fredda rendeva desiderabile il caldo di un Caffè, ho incontrato Anna Salfi, Presidente della Fondazione Argentina Bonetti Altobelli componente della Segreteria regionale della Cgil dell’Emilia Romagna, da sempre impegnata sia nelle politiche sindacali europee che internazionali, e di genere e giovanili.

In realtà Anna non avrebbe bisogno di presentazioni. Si conosce il suo passato di brillante studentessa di giurisprudenza e il suo bel presente da social-democratica europea privo di dogmi e anatemi. Condividiamo la terra di nascita. e di lei è comprovata la dignità, l’onestà intellettuale, rispettata anche dagli “avversari”. L’eleganza, dentro e fuori, sottolinea come la misura dell’essere umano è nel trovare nell’indipendenza intellettuale la sua legge. E’ una donna che ha tanto da dire. Anna non la intervisti. Anna la devi ascoltare mentre, tra un sorriso ed uno sguardo serioso, ti parla di impegno civile e sindacato. Un paio d’ore che nessuno potrà mai replicare.

Anna Salfi: Che freddo che fa! Guarda, questo è per te – mi dice, sorridente, mentre mi consegna un libro sulla storia del sindacalismo emiliano sul periodo che va dalle prime società di mutuo soccorso alle conquiste nel welfare state – .

Antonio Fiore: Un anno difficile, vero? Non ricordo, a memoria mia, degli attacchi così duri verso il sindacato. Vero è che Togliatti destabilizzò fortemente la Cgil dopo che Di Vittorio prese posizione contro l’occupazione da parte delle truppe sovietiche dell’Ungheria nel 1956 ed anche le contestazioni degli studenti a Luciano Lama sottolineano che il sindacato ha vissuto alti e bassi…

Il confronto, la dialettica anche molto aspra tra sindacato e politica è cosa molto frequente e ricorrente, che io stessa, nella mia esperienza ho potuto vivere da vicino come quando, ad esempio, si verificò uno scontro molto violento tra le idee di Massimo D’Alema allora ai vertici della vita politica e Sergio Cofferati Segretario generale della CGIL. Attiene al tema dell’autonomia sindacale, che non significa né indipendenza, né indifferenza dalla politica. Significa rappresentare il punto di vista dei lavoratori perseguendo una sintesi generale. E’ il senso del sindacato confederale italiano, da sempre.Si. E’ stato un anno difficilissimo questo 2014. Soprattutto per il malumore che si è creato dopo gli attacchi del Presidente del Consiglio che non dimentichiamo è anche segretario del primo partito del paese, il quale non sono non intende confrontarsi con i sindacati che, ricordiamoci, rappresentano in Italia poco meno di 16 milioni di cittadini, ma si rifiuta di parlare con un paese, con una buona parte del paese, che chiede il confronto. Non è una questione ideologica bensì di rispetto per il confronto con chi non la pensa come te. Di semplice iter democratico, se vogliamo…

Ci professiamo social-democratici in Europa, a volte persino “di sinistra”ma stiamo smantellando il welfare state… ed il compromesso sociale che ne è alla base.
Il mondo corre ad una velocità tale che le risposte, le idee politiche, la progettazione delle soluzioni possibili si traducono, sempre più spesso, in palliativi affrettati e poco ponderati.Pensa, tanto per dirne una, come la riforma delle pensioni abbia portato quasi 200.000 italiani a vivere la situazione di “esodati”, senza lavoro e senza pensione da un giorno all’altro.E’ necessario disegnare nuove linee guida per il nostro sistema sociale, affinché diventi più efficiente e sostenibile e al tempo stesso continui a rappresentare quel punto di equilibrio tra sviluppo e coesione sociale. E’ ovvio che questo può avvenire solo attraverso il confronto, la discussione, che si genera solo avendo a riferimento un pensiero “lungo” che non guardi cioè solo al presente, all’immediato, ma soprattutto al futuro.Oggi, come se nulla fosse, vengono emanate misure tali che incidono sul lavoro e sulla vita dei cittadini, stravolgendola del tutto.La storia ci ha mostrato come la corsa a perdifiato verso “il futuro” spesso ci abbia fatto perdere il contatto con la realtà vera producendo danni gravissimi ed irrimediabili.Una cosa oggi si mostra a noi in maniera particolarmente evidente: la forte disoccupazione ed inoccupazione giovanile riporta al centro delle disquisizioni politiche il tema del lavoro ed il bisogno di non mettere a repentaglio il sistema di welfare state italiano e la sua stessa sostenibilità.Vogliamo sentirci, per responsabilità civica prima che di sindacato, parte di un processo di discussione che aiuti questo paese. Il disaccordo, che è accettato, contemplato e portato a sintesi in un regime democratico, non può e non deve sfociare in slogan quali “Gufi”, “Non ci faremo bloccare da chi non sa usare un iphone” e cose del genere. Dire “è finito il tempo in cui una manifestazione puo’ bloccare il governo e il paese. Noi non molliamo di un centimetro” rappresenta come una parte della politica italiana stia delegittimando i sindacati in Italia. Ma bada bene, Antonio, limitare i sindacati confederati al mondo del lavoro è un grande errore di questo paese. Io che sono orgogliosamente Lucana ho vissuto molti anni a Bologna ed è proprio dall’Emilia-Romagna che ci arriva l’esempio più lampante di quanto il mondo sindacale abbia affrontato temi sociali che vanno bel oltre il lavoro e la retribuzioni: il sorgere delle prime società di mutuo soccorso hanno determinato e favorito l’evoluzione del nostro stato sociale perseguendo obiettivi non tanto distanti da quelli odierni. Oggi la priorità, verso la quale le nostre forze continuano ad investire, è il lavoro ma l’obiettivo fondante è la cittadinanza sociale e la lotta alle crescenti diseguaglianzeNon è ammissibile, alle soglie del 2015, che i diritti sociali e spesso anche quelli civili siano determinati dall’appartenenza ad una singola professione o ceto che permette loro di godere di uno status specifico nella società.

E questo vale anche se inseguiamo l’austerità?
E’ indubbio che condividiamo obiettivi comuni di contenimento del deficit pubblico, anzi dirò di più: riteniamo opportuno e necessario una ridefinizione del nostro welfare, una sua ri-progettazione. Ridurre gli sprechi, le eccedenze nelle amministrazioni poco virtuose, perseguire con certezza della pena il recupero dell’evasione fiscale. Ma non è possibile, però, che i gravami fiscali vengano sempre a poggiarsi sulle spalle dei meno abbienti. Ciò che, peraltro, ha come risultato,quello di spingere verso una diminuzione dei consumi e dei risparmi.Però sia chiaro: bisogna smetterla di sostenere stereotipi generalizzanti e mi riferisco alla rivalsa della società civile verso il pubblico impiego e l’asserzione della sua inutilità e della poca efficienza di tutti i servizi pubblici, per fare un esempio. Il pubblico, che lo si ammetta o no, ci dimostra continuamente la sua utilità. Scuole, ospedali, asili, musei fanno parte della qualità della nostra cittadinanza sociale ovviamente ponendo rimedio a quelle storture che abbiamo conosciuto. Dobbiamo ridisegnare questo paese ed è imprescindibile che anche il settore pubblico lo faccia e che la politica affronti, in prima persona, la cosa.

Concordo su tutto. Forse per vicinanza ideologica. Ma c’è una crisi di mezzo che rende difficile, più di quanto lo sia già, affrontare con lucidità tutti i buoni propositi. No?
Nessuna risposta, figlia della politica o anche del sindacato, sarà in grado di risolvere positivamente una situazione che se ti costringere di agire solo nell’immediatezza, nel breve periodo. C’è bisogno di un pensiero lungo. Senno e ponderatezza che guardano lontano. Risposte concrete che si inquadrino in una strategia più generale sia in termini di valori che di territori.D’altronde se definiamo globale, per estensione territoriale ed economica, una crisi che non risparmia nessuno, si può immaginare di risolvere un problema macroscopico in una dimensione microscopicamente nazionale. No?In questo marasma generale si rischia di esacerbare oltre misura animi e cittadini, di determinare condizioni che minano al prestigio delle istituzioni e della politica. Bisogna rilanciare il nostro paese, ma anche la nostra società e i suoi migliori valori. Ritrovare quello slancio che ha visto le generazioni passate difendere e diffondere mutualismo, riforme sindacali, cooperative, servizi per la cittadinanza. Nessuno può salvarsi da solo.

Però pare che alle belle parole spesso non vi siano proposte e programmazione…
Non è vero. La Cgil è costantemente impegnata nella formulazione di proposte per quanto riguarda “la riprogettazione del welfare state”. Esempio di quanto ti dico è il Piano del Lavoro che ricorda l’omonimo piano del lavoro di Giuseppe Di Vittorio del 1949. Cambiano i tempi e le modalità di azione ma oggi, più di ieri, consideriamo ancora imprescindibili: le persone. Non vi può essere sforzo utile se continuiamo ad ignorare che i problemi economici e sociali sono, ancor prima di declinarsi, problemi umani. Problemi che le persone vivono tanto nell’immediato che nel lungo periodo.

Ed i giovani?
Cerchiamo costantemente di avvicinare le giovani generazioni al mondo sindacale. Vogliamo, e già lo facciamo, investire anche se dovremmo fare di più. Proviamo ad aiutarli nella loro crescita civile e sindacale, sia tramite le attività della Fondazione Argentina Bonetti Altobelli, che con la formazione politica. Cerchiamo di sostenerli anche nelle discipline umanistiche, sono un fiore all’occhiello della nostra formazione universitaria riconosciute in Europa e nel mondo.Sai, Antonio, tanti tuoi coetanei si sono avvicinati alla Cgil e sono diventati rappresentanti riconosciuti e stimati., altri ragazzi e ragazze,sviluppando una propria soggettività sono diventati donne e uomini coscienti innanzitutto del mondo intorno a loro. Non so se faranno mai sindacato, ma di certo diventeranno, anche grazie al nostro aiuto, cittadini più consapevoli. E non mi pare poco.La partita non si esaurisce qui, certamente. Altre mille sfide ci aspettano e siamo pronti, sarete pronti, a superarle.

Il futuro? Difficile? Che 2015 ci dobbiamo aspettare?
Anche questo sarà un anno difficile. Vanno in scadenza molti periodi contrattati sugli ammortizzatori sociali e l’uscita dalla crisi appare ancora lontana. Ma soprattutto no mi sembra di cogliere una strategia economica all’altezza della situazione. Ma vedremo.Assistiamo ad una costante e continua rimozione dei temi legati al sociale in politica e nel quotidiano. Si ragiona solo in termini di bilancio e imposizioni comunitarie che ci dimostrano che abbiamo una pessima visione di dimensione collettiva, pubblica e sociale.Sarà difficile, ci aspettano momenti duri, ma dobbiamo continuare a promuovere esperienze e progetti in grado di offrire al dibattito politico proposte e soluzioni. Con la Fondazione intendo farlo anche attraverso una totale e completa consapevolezza delle origini e motivazioni che hanno portato a plasmare il sistema sociale che oggi conosciamo. Penso che sia utile. Tutto cambia ma i nodi restano gli stessi.

Difficilmente mi capita di non fumare per più di un’ora. Generalmente quando sono in viaggio e quando le conversazioni sono piacevolmente interessanti. Più per me che per chi parla. Con Anna è stato così. Chiunque pensasse che il nostro modello sindacale sia sorpassato e vetusto, probabilmente non sa bene di cosa parla. Non c’era retorica nelle sue parole, non un solo accenno di ideologie dimenticate o riottosità. Ho sorseggiato un caffè in compagnia di una Donna che conosce il suo tempo e le sfide di quest’ultimo. Un’europeista convinta che, con più forza di quanto possa fare io, crede nell’unione comunitaria e nel bisogno di sentirsi tutti, indistintamente, parte di un disegno comune. Al bando la malinconia dei tempi andati, delle bandiere contro le serrate e degli slogan di partito. Ho bevuto un caffè con il sindacato e quando ci siamo salutati ci siamo resi conto che fuori la neve era scesa silenziosamente senza disturbare nessuno. Ad Anna ho offerto un caffè e lei mi ha insegnato quanto importante sia pensarla liberamente e senza dogmi o misteri di fede.

Ognuno per la sua strada, augurandoci un felice anno nuovo. Ma non so perché avevo in testa una vecchia poesia di Bertolt Brecht:

Che cosa è ora falso di quel che abbiamo detto?
Qualcosa o tutto?
Su chi contiamo ancora?
Siamo dei sopravvissuti, respinti
via dalla corrente? Resteremo indietro, senza
comprendere più
nessuno e da nessuno compresi?
O dobbiamo sperare soltanto
in un colpo di fortuna?»
Questo tu chiedi. Non aspettarti
nessuna risposta
oltre la tua.


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