Una cosa va detta subito: a Pier Carlo Padoan è riuscito, a Fabrizio Saccomanni no. L’ex direttore generale della Banca d’Italia aveva scommesso sulla ripresa nel 2014 e aveva impostato una politica fiscale di moderato rigore, ma ha mancato l’obiettivo. Il suo successore ha allentato i freni e ha centrato il bersaglio. Come mai?
La virtù non basta se manca la fortuna, ricordava Machiavelli, e PCP (il ministro dell’Economia merita di esser chiamato alla francese) viene aiutato da due formidabili variabili esogene: la discesa del prezzo del petrolio che fa risparmiare all’Italia almeno 20 miliardi, e la svalutazione dell’euro che fornisce una spinta ulteriore all’export. Inoltre c’è la nuova iniezione di denaro liquido alle banche via Banca centrale europea, più il Quantitative easing in arrivo.
Tutto ciò è mancato a Saccomanni anche se la svolta era nell’aria. Ma bisogna dire che PCP ha saputo resistere alla tentazione di dare una nuova stretta per rispettare l’impegno al pareggio del bilancio.
Anche in questo caso, è stato sostenuto da fattori extra: il neo pragmatismo che prevale in Europa e soprattutto la spavalda condotta di Matteo Renzi che ha scelto di navigare con astuzia tra interessi nazionali e vincoli sovranazionali. PCP, però, ha messo bene le vele al vento.
Adesso la Ue ha dato tre mesi di tempo all’Italia e il ministro si mostra fiducioso: tranquilli, a fine marzo, quando verranno presentati i conti insieme, passeremo l’esame. Ha ragione?
Gli spazi di manovra non sono grandi, ma esistono: si possono investire 4-5 miliardi. Il pareggio di bilancio è rinviato al 2017 o anche più in là, purché si facciano le riforme che nel medio periodo potranno dare il loro contributo alla crescita. Nel frattempo il pil dovrebbe salire di oltre un punto.
Non mancano le incognite negative, dalla Grecia alla Russia. Ma Atene può diventare persino un’opportunità. Se viene negoziato un nuovo salvataggio, chi oserà imporre una tagliola sulla testa dell’Italia? E la clausola della crescita che Tsipras vuol introdurre potrebbe essere un precedente utile.
In Europa, del resto, si fa strada una nuova consapevolezza, cioè che la riduzione del debito va realizzata attraverso lo sviluppo. Per anni si è detto il contrario e non ha funzionato. Era prevedibile, ma i sacerdoti dell’ortodossia privilegiano l’ideologia al buon senso. Il mood sta cambiando e PCP lo ha colto al volo. Sia lode al pragmatismo e alla flessibilità intellettuale. Forse non basta per salire al Quirinale (Padoan è uno dei presidenziabili); in ogni caso è una gran qualità politica. Ma adesso?
Adesso bisogna fare un salto ulteriore. Di qui a marzo Il governo deve trovare tutti gli spazi disponibili per alleggerire progressivamente il carico fiscale, cominciando dal lavoro (non solo quello dipendente). E questi spazi si aprono riducendo la spesa pubblica. Come?
La spending review è stata accantonata, ma sarebbe un errore cancellarla. Le pensioni non possono peggiorare ancora, tuttavia è possibile fare interventi di razionalizzazione non punitiva. Lo stesso vale per la spesa sanitaria, l’altra grande voce.
E poi ci sono gli statali. I loro stipendi e i loro organici sono bloccati da cinque anni. Quanto può durare? Forse è meglio affrontare il problema dalla testa e non dalla coda. In primo luogo si tratta di capire di quanti dipendenti pubblici c’è bisogno e dove. Poi di introdurre mobilità obbligatoria e licenziabilità. Infine, occorre un contratto che leghi la paga alla produttività concepita in base ai carichi di lavoro e al prodotto per ora lavorata. Come in fabbrica, perché no? Il patto sociale che privilegiava le mezze maniche anche rispetto ai colletti bianchi dell’industria, fa parte di un mondo finito per sempre.
Stefano Cingolani