L’oro nero ha il suo valore e questo, che lo si voglia o no, regolerà le nostre vite almeno per i prossimi 50 anni o comunque almeno fino al momento in cui le fonti energetiche rinnovabili non saranno economicamente convenienti ed il loro mercato, non più drogato da sussidi di stato che finiscono per appesantire la bolletta energetica dei consumatori, non sarà sufficientemente autonomo e sviluppato. L’oro nero intanto la fa da padrone. Partiamo da un primo fattore attuale ma fondamentale: il prezzo del petrolio è sceso, alla metà di novembre, alla soglia dei 75 dollari al barile e il trend sembra inarrestabile.
Nello scacchiere internazionale che ne influenza il prezzo, e dunque le sorti di molti dei governi dei paesi produttori e, a cascata, del resto del pianeta, giocano un ruolo da comprimari tre grandi attori/produttori che si muovono contemporaneamente su più tavoli fondamentali per gli equilibri geopolitici internazionali. Primo fra tutti, perché di stringente attualità per il suo ruolo nello scacchiere ucraino, troviamo la Russia che lega l’equilibrio del proprio bilancio statale al 46% delle entrate derivanti dalla vendita del petrolio e che non può permettersi un crollo del prezzo del greggio sotto i 100 dollari al barile. Quel prezzo è il limite sotto il quale non scendere per non compromettere quella stabilità finanziaria del paese, necessaria al governo di Vladimir Putin per sostenere le riforme varate, come l’aumento degli stipendi per gli statali e il blocco dell’età pensionabile, 55 anni per le donne e 60 per gli uomini, ovvero su limiti nettamente in controtendenza al resto del vecchio continente che invece li aumenta, e che gli hanno garantito sino ad oggi l’86% del consenso popolare.
L’Arabia Saudita, la cui economia dipende al 90% dal petrolio e che, per non ripetere gli errori del passato e non perdere importanti quote di mercato, non rallenta la produzione potendo contare oltre che su una forte stabilità finanziaria, su ingentissime riserve che gli consentono di sopperire alle variazioni al ribasso del prezzo del greggio, contribuendo in tal modo a favorire la discesa del costo al barile. Ma che, tuttavia, deve porre molta attenzione per non scendere troppo danneggiando, in tal modo, altri importanti attori/produttori dello scacchiere mediorientale che non sopporterebbero un costo dell’oro nero troppo basso se non a prezzo di forti tensioni sociali che al momento sono da evitare in ogni modo. Infine gli Stati Uniti che sono divenuti energicamente indipendenti grazie alla sempre maggiore produzione di shale oil (ovvero di petrolio estratto attraverso il fracking) e che, nel limitare i propri acquisti di greggio sul mercato internazionale, contribuiscono anch’essi a mantenere basso il prezzo al barile mentre i produttori di shale oil iniziano – grazie anche ad un ritrovato vigore repubblicano nel congresso – a scalpitare per abbattere i limiti alle esportazioni di greggio che sono un retaggio degli anni ’70.
Tutto questo in un momento in cui l’offerta di prodotti petroliferi sta nettamente superando la domanda per l’evidente contrazione dei consumi che si registra tanto a livello dei paesi europei quanto, ultimamente, anche in Cina. In questo quadro s’intrecciano tanti, troppi, interessi economici capaci di influenzare gli equilibri politici più delicati. Tra gli scenari il più attuale è quello dello scacchiere ucraino che vede contrapposti i paesi occidentali e la Russia che, recentemente, proprio per bocca del suo ministro dello sviluppo economico, Alexiei Uliukaiev, ha annunciato un rialzo dell’inflazione al 9% sia per effetto delle sanzioni imposte dall’occidente che per il crollo del prezzo del greggio. Notizia quella dell’inflazione, che se Russia ed Occidente non troveranno la quadra della questione Ucraina, potrebbe in futuro essere letta con un forte senso di critica da parte dell’opinione pubblica russa nei confronti dell’Occidente ed in particolare dell’Europa, per l’innalzamento dei prezzi al consumo in quel paese.
Dall’altro troviamo la delicata e sempiterna questione mediorientale, dove basta veramente poco per far saltare la polveriera. Dunque se da un lato occorre un prezzo del greggio più alto per mantenere un certo status ed equilibrio economico dei paesi produttori dall’altro un prezzo più basso per mantenere e conquistare nuove quote di mercato in un momento di forte contrazione dei consumi energetici, rischia di essere destabilizzante. Alcuni analisti azzardano previsioni, non troppo irrealistiche, di una lenta e progressiva discesa del prezzo del greggio addirittura verso i 50 dollari al barile. In tal caso, l’oro nero, diverrà ancor più – in fondo lo è sempre stato – un mezzo compulsivo per far si che paesi, le cui economie dipendono in tutto o in parte dal petrolio, rivedano la loro politica scendendo a più miti consigli, come ha affermato in una intervista Alberto Clò, auspicando che tali paesi invece possano contribuire alla stabilità della produzione e dei prezzi.
Certamente non è questa la sede per dilungarci troppo sullo scenario internazionale che influenza il prezzo del petrolio, ne chi scrive ha le competenze per farlo, ma è interessante la posizione di questi tre Paesi (Russia, Stati Uniti e Arabia Saudita) per le dinamiche e gli equilibri politici che ogni azione da essi posta in essere per tutelare/conquistare fette di mercato petrolifero determinano sul piano internazionale ed in particolar modo sul nostro Paese, che è il crocevia del mediterraneo per i suoi importanti siti produttivi e della logistica petrolifera. Tema quest’ultimo su cui andrebbe scritto un saggio a parte.
Di recente, almeno dal giugno scorso, assistiamo a un calo del prezzo internazionale del greggio ma, almeno in Italia, le Associazioni dei consumatori per prime, hanno fatto notare ad una politica un po’ distratta su tale tema, che al calare del prezzo del greggio non corrisponde, o almeno non è percepita dai consumatori, una sensibile diminuzione del prezzo dei carburanti alla pompa. La colpa ovviamente non può e non deve, anche per una questione di onestà intellettuale, essere addossata né alle compagnie petrolifere né, tanto meno, ai rivenditori e distributori. Occorre dunque fare un minimo di chiarezza. Prima di tutto chiariamo cosa sia il prezzo industriale dei prodotti petroliferi, cioè quella componente del costo finale che comprende tutte le fasi della raffinazione del prodotto grezzo, della commercializzazione all’ingrosso e della distribuzione alla pompa, che è sconosciuto ai consumatori e che viene rilevato settimanalmente dal Ministero dello Sviluppo Economico. Questo si attesta, al 17 novembre 2014, a 0,619 euro/litro. Un prezzo perfettamente in linea con quello registrato nell’Europa a 28 o comunque che ha fatto registrare su base annua uno scarto di appena +0,014 euro/litro.
Dunque in un paese come l’Italia che non ha nessuna possibilità di incidere sulla formazione del prezzo internazionale del greggio al Brent, sia perché non è un paese produttore con appena il 7% del fabbisogno nazionale derivante dalle estrazioni interne, sia perché i volumi commercializzati internamente non sono tali da collocarci tra i grandi acquirenti, l’unica via per incidere sulle componenti del prezzo industriale al netto della materia prima, è nelle mani delle compagnie petrolifere, che in Italia hanno importanti centri di raffinazione, dei rivenditori e dei distributori al dettaglio che possono, e lo hanno già fatto per restare sul mercato in un momento di costante riduzione dei consumi, ridurre sensibilmente il proprio margine di guadagno. I rivenditori ad esempio al fine di contrastare la crisi economica che ha colpito anche l’Italia in questi anni e che ha causato una perdita di oltre 9 miliardi di litri di carburante venduto al consumo finale, hanno contribuito sensibilmente a mantenere bassi i prezzi non solo tagliando i margini di guadagno ma hanno dato vita alle cosiddette “pompe bianche” che sono divenute un elemento sensibile per la dinamicità del mercato, con differenze di prezzo, in alcuni casi sensibilmente visibili, rispetto ai circuiti tradizionali. Allora se sia le compagnie (i cui costi di produzione sono in linea con quelli europei) sia gli altri attori della filiera hanno già fatto la loro parte, bisogna ricercare la causa dell’alto costo dei carburanti nel nostro Paese altrove. Il colpevole c’è. E’ lo Stato. Purtroppo è un colpevole obbligato dal sistema.
In troppi dimenticano che, così come la Russia – ad esempio – fonda parte sostanziale della propria economia sulle vendite di petrolio e gas, i paesi non produttori fondano, per buona parte, le loro economie sulla tassazione dei prodotti energetici attraverso l’imposizione delle accise. L’Europa a 28 vede infatti una applicazione delle accise sui prodotti energetici, ed in particolare sui carburanti, molto variabile. L’Italia, a parità di costo del prodotto con i vicini paesi europei, si colloca tra quelli con una tassazione sui carburanti più elevata e questo, ad esempio, è motivo della sempre maggiore trasumanza energetica, per chi risiede vicino al confine, verso la Slovenia o l’Austria, dove in carburante costa molto di meno, non per il prezzo del prodotto ma per il peso fiscale che è assai inferiore. Infatti, l’Italia sconta una tassazione elevatissima (accise, iva sulle accise, iva sul prodotto, accise regionali e queste ultime, ove applicate, sono un’ulteriore aggravio per i consumatori e motivo di discriminazione) che nel complesso ha superato a dicembre 2014 il 64,45% del prezzo medio rilevato dal Ministero dello Sviluppo Economico presso gli impianti self service presenti sul territorio nazionale. Ma se da un lato appare plausibile che nel rispetto del principio “chi inquina paga” che i prodotti energetici fossili siano tassati, sulla base di criteri oggettivi e non discriminatori, cosi come avviene ovunque entro certi limiti, dall’altro è evidente la “mostruosità tutta italiana” che spinge i Governi che si succedono, a perseverare nel considerare i carburanti come il bancomat da cui attingere risorse certe, pur di non toccare la spesa pubblica improduttiva.
I Governi del Bel Paese, a dispetto degli analisti che avevano preconizzato il verificarsi di un potente effetto Laffer sulle entrate erariali (per il settore dei carburanti si registra -1 miliardo di euro di entrate nel 2013) da tempo trovano, a dispetto delle promesse elettorali, più facile e politicamente meno rischioso dato l’alto livello di sopportazione che gli italiani ancora hanno, incrementare le accise sulla benzina e sul gasolio o, come va di moda ora, usarle a garanzia delle entrate derivanti da norme di legge i cui esiti di gettito erariale appaiono incerti (se non impossibili) o per diminuzioni della spesa pubblica di difficile attuazione. Il risultato è che nel giro di pochi anni (dal 2011) ci ritroviamo a pagare la benzina ben 26,5 centesimi di euro al litro in più dei nostri fratelli europei e di questi soldi oltre il 90% sono dovuti a incrementi di accise e Iva. Tutto questo senza contare che gli effetti di un’eccesiva tassazione inevitabilmente comprimono i consumi (le stime prevedono dal 2015 un ulteriore -11% solo sui carburanti per effetto delle clausole di salvaguardia) e con essi si pongono a rischio non solo i livelli di gettito erariale ma, lo stesso sistema economico e produttivo e dunque occupazionale. Lo sapranno nei palazzi che contano? Va da se che, visto che in Italia certa politica è sempre più distratta, occorrerebbe stimolare una riflessione tutta europea sulla tassazione dei prodotti energetici con la ripresa dei lavori sulla direttiva 2003/96/CE che ristruttura il quadro comunitario per la tassazione dei prodotti energetici, in modo da livellare verso il basso la tassazione o comunque ponendole un tetto massimo da non superare (parliamo di tassazione indiretta e non di tassazione diretta su cui la UE non avrebbe voce in capitolo).
Ciò non solo a vantaggio e garanzia dei consumatori ma dell’intero sistema che vedrebbe i consumi energetici risalire per effetto di una tassazione contenuta e con essi il gettito erariale. Gettito da destinare anche alla ricerca di fonti energetiche rinnovabili più performanti. Appare lampante quanto un sistema fiscale stabile e garantista, che parta proprio dal settore energetico che è il vero motore di ogni economia, possa contribuire a creare quelle condizioni che tutti gli imprenditori auspicano: stabilità fiscale e politica per non rischiare gli investimenti e produrre ricchezza e occupazione. In ultima analisi benessere e coesione sociale. Si produrrebbero così nuovi spazi di mercato anche per i prodotti made in Usa, ad esempio, che oggi, pur sbloccando le esportazioni da quegli Stati, non troverebbero spazio in Europa a causa dell’elevata tassazione e dei consumi in calo e, come auspicabile, una stabilità della produzione, dei consumi e dei prezzi, porterebbe anche una stabilità in quelle aree geografiche particolarmente sensibili alle variazioni del prezzo del petrolio.
Quindi, per quanto ci riguarda, come Cittadini europei, il vero campo di battaglia sul quale agire per ridurre la tassazione sui prodotti petroliferi, stabilizzandone consumi, produzione e costo, non sono in prima battuta i singoli Stati ma le Assemblee sovranazionali, ed in questo caso il Parlamento europeo che deve puntare ad armonizzare le regole sulla tassazione indiretta, ponendo un freno alla voracità fiscale di alcuni stati membri della UE. Il nostro è tra quelli più voraci, almeno per quanto riguarda i carburanti.