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Ecco come può funzionare il Quantitative easing di Draghi

“Dove, come, quando e perché”: sono i consueti quattro quesiti cui si dove rispondere quando si intraprende una scelta strategica. Obiettivi, modalità, tempi e soprattutto le ragioni dell’agire, devono essere coerenti tra loro: una regola che va applicata prima di procedere con il Quantitative easing da parte della Bce.

Servono risposte coerenti con i vincoli posti dal Trattato sul Fiscal Compact e con la strategia di deflazione competitiva che ha rappresentato il framework al cui interno sono state definite le politiche fiscali e le riforme socioeconomiche volte ad eliminare gli squilibri strutturali macrofinanziari e delle bilance dei pagamenti che caratterizzavano i Paesi deboli dell’Eurozona, che non potevano ricorrere alla svalutazione monetaria. La strategia di risanamento ha riguardato i Paesi che erano comunque deficitari: in termini di bilancia dei pagamenti correnti, con un risparmio interno inadeguato rispetto agli investimenti, con un bilancio pubblico strutturalmente in disavanzo ovvero con un livello di debito pericolosamente elevato. Le politiche fiscali hanno puntato alla contrazione della domanda interna, all’aumento dell’Iva ed alla flessibilità in uscita dal mercato del lavoro: l’impoverimento generale e l’aumento della disoccupazione sono stati un obiettivo politico strumentale. Serviva modificare i prezzi relativi, riducendo la massa salariale ed i salari unitari dei Paesi deficitari, per aumentarne la competitività esterna e stabilizzarne i bilanci pubblici. Nei fatti, la ricetta ha funzionato: la Grecia ha finalmente un pareggio della bilancia dei pagamenti, rispetto ad un saldo negativo vicino alla doppia cifra che aveva caratterizzato i venti anni precedenti; l’Italia presenta un saldo commerciale attivo intorno al 3% del Pil; la Spagna ha ridotto enormemente la sua esposizione finanziaria verso l’estero.

Sul versante dei bilanci pubblici e della crescita, la ricetta invece non ha funzionato: si prevedeva che le risorse umane impiegate in modo scarsamente efficiente nelle imprese messe fuori mercato dalla crisi, sarebbero state progressivamente reimpiegate, a salari nominali inferiori. Il sistema bancario avrebbe dovuto assicurare il sostegno agli investimenti. Si sono verificati tre fenomeni inattesi: la contrazione economica ha determinato perdite consistenti al sistema bancario; il calo della domanda interna scoraggia gli investimenti ed anche le operazioni di T-Ltro decise a giugno scorso da parte delle Bce non hanno riscosso grande successo. La capacità produttiva, nonostante le chiusure degli impianti ed i fallimenti, è ancora esuberante e per vendere si compete sui prezzi. Infine, ci sono gli effetti sui conti pubblici: con una economia reale stagnante ed una crescita tendente allo zero dei prezzi, il rapporto debito/pil tende a crescere costantemente, in proporzione diretta con il deficit. E’ questa la deflazione da combattere, il “perché” è necessario procedere con il Qe.

Il risanamento strutturale ottenuto riducendo i prezzi ed i salari nei Paesi deficitari si sta dimostrando incompatibile con l’obiettivo di assicurare la sostenibilità dei debiti pubblici ed ancor più la loro riduzione in percentuale rispetto al Pil. Costituisce, inoltre, un ostacolo alla politica monetaria: la bassa inflazione si riflette negativamente sui tassi di remunerazione dei depositi, sposta la raccolta del risparmio al di fuori del sistema bancario, e rende ancor più caro il credito in termini reali. Il Qe rappresenterebbe l’ultimo possibile rimedio rispetto ai danni inattesi provocati dalla deflazione competitiva.

Più complesso è l’aspetto temporale, definire fino a “quando” procedere con il Qe. Occorre infatti stabilire gli obiettivi da perseguire, chiarendo che l’iniziativa continuerà finchè non saranno stati raggiunti: in questi termini, i 1.000 miliardi di euro di asset da acquistare da parte della Bce rappresentano solo un ordine di grandezza, volto a determinare il parallelismo con l’andamento dei bilanci delle altre grandi banche centrali. Chi immagina che la Bce possa comprare fino a 1.000 miliardi di euro in titoli di Stato, operando sul mercato secondario al fine di accollarsi un bel po’ di titoli che ingombrano i bilanci degli operatori bancari e finanziari, irrorandoli di liquidità per consentire loro di dar fuoco alla speculazione al rialzo, ha in mente la lunga stagione della “Greenspan put” e non la strategia adottata da Ben Bernanke. Mentre nel caso di Greenspan la liquidità serviva per far superare al mercato gli effetti delle ricorrenti crisi finanziarie regionali, nel caso del Qe3 l’obiettivo era di portare stabilmente la disoccupazione al di sotto del 6%: l’allentamento quantitativo sarebbe durato fino a “quando” quell’obiettivo non fosse stato raggiunto. La stessa impostazione è stata adottata dalla BoJ, che ha dato vita ad un “Open-ended qualitative & quantitave easing”: continuerà fintanto che non sarà raggiunto l’obiettivo di riportare l’inflazione stabilmente al 2%. Identico dovrebbe essere, considerato il mandato della Bce, l’obiettivo da raggiungere.

La terza questione riguarda il “come” effettuare il Qe: se l’obiettivo è quello di aumentare il livello dei prezzi al consumo, la soluzione più efficiente sarebbe quella di finanziare direttamente con nuova liquidità le spese pubbliche, evitando di farvi fronte ricorrendo al sistema finanziario, spiazzando così il credito e gli investimenti. E’ ben noto il divieto posto dai Trattati europei, analogo a quello vigente negli Usa, dove hanno messo a punto una procedura che triangola il finanziamento al Tesoro attraverso i Primary dealers. Ci si trova comunque in un contesto molto diverso da quello precedente, in cui l’accesso alla liquidità della banca centrale era ammesso solo alle banche commerciali: se oggi la Bce comprasse titoli di Stato detenuti da una banca, questa sarebbe poi liberissima di utilizzare la liquidità così ottenuta per effettuare internal trading. Gli effetti sull’inflazione dei prezzi al consumo di questo Qe sarebbero nulli. Pare più utile prendere spunto dal Qqe (Quantitative & qualitative easing) adottato dalla Banca del Giappone, che considera come ammissibili anche gli investimenti privati cofinanziati o garantiti dallo Stato, finalizzati alla ricostruzione dopo il maremoto, l’innovazione tecnologica ed in campo energetico. Senza ingigantire il debito pubblico, ci sono investimenti privati che in Giappone vengono così finanziati direttamente con nuova liquidità da parte della banca centrale, agli stessi tassi ed alle stesse condizioni stabilite per i titoli di Stato. Si tratta di una soluzione più coerente con le esigenze dell’Europa, in cui l’agibilità della Bei è condizionata dall’aumento del suo capitale da parte degli Stati aderenti e la capacità della Commissione europea di far decollare un piano di investimenti coerente con le necessità è lontano anni luce dalle dimensioni richieste da una adeguata politica dell’offerta.

Rimane l’ultimo quesito, “dove” intervenire: è in funzione del tasso di disoccupazione che si deve operare. Il Qe deve evitare la deflazione, intervenendo dove esistono risorse umane inutilizzate. Investire dove le banche sono sature di liquidità, o comprare i titoli dei Paesi con Tripla A sarebbe una sciocchezza. Dopo tanti errori e sacrifici inutili, sul Qe si gioca la partita finale. Servono proposte immediate ed iniziative concrete: inutile aspettare che le mele ci caschino sulla testa, mentre contempliamo il cielo e le sue stelle.



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