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Ben architettato, Mario (Draghi)

Il compromesso c’è, come era previsto, sul rischio condiviso con le banche centrali nazionali. La Bundesbank ha imposto che per l’80% dei titoli acquistati ricada pro quota (la Banca d’Italia ha il 12% della Bce e ha già detto che questa soluzione non le piace) e comunque  è rimasto il contrasto sulla necessità di agire adesso. Tuttavia, la svolta imposta da Mario Draghi è netta: mille miliardi in più sul mercato con acquisti mensili di titoli per 60 miliardi di euro di qui a settembre 2016, non sono noccioline. Il giudizio politico, dunque, non può che essere positivo.

I tecnici discuteranno a lungo se è un Quantitative easing all’americana, se la scelta è gravida di eccessivi rischi per il futuro (bolle finanziarie e inflazione) come sostengono i tedeschi (su questo Draghi si è lasciato andare all’ironia verso quelli che annunciavano a ogni pie’ sospinto l’aumento dei prezzi che invece sono crollati). O se darà più margini di manovra per rilanciare la congiuntura (Draghi ha precisato di non farsi illusioni: il Qe non lascia i governi liberi di fare deficit spending). Ma i mercati, che posseggono fiuto politico, hanno reagito bene: l’immediata caduta dello spread e l’ulteriore svalutazione dell’euro sul dollaro, dicono che le aspettative non sono state deluse.

L’Eurolandia è in salvo? Calma. Dipende dal passo e dall’estensione delle riforme (lo ha detto Draghi nella conferenza stampa), dipende da quel che succede domenica in Grecia (anche se trattative per un terzo salvataggio sono già aperte), dipende da una serie di fattori interni ed esterni ai Paesi che adottano la moneta unica. In ogni caso, i gufi (come avrebbe detto Matteo Renzi) debbono tornare a dormire sui loro rami.

Il presidente è riuscito a ottenere l’unanimità su un punto chiave, cioè stabilire che la Bce sta agendo secondo i trattati (aiutato in questo anche dalla sentenza emessa dalla Corte europea che ha isolato l’opinione tedesca) anche se si avvicina al modello Federal Reserve e si allontana da quello Bundesbank. Draghi ha avuto una larga maggioranza sulla necessità di agire subito e un consenso sulla condivisione del rischio (ciò vuol dire che la maggior parte era d’accordo, gli altri non hanno sollevato obiezioni). Insomma, ha dimostrato ancora una volta la sua abilità.

A questo punto sorgono tre domande: basterà la politica monetaria per rilanciare l’economia? Quanto ci vorrà (gli Usa hanno impiegato tre anni fa)? Il bilancio della Bce, che torna ben sopra i tremila miliardi di euro, mette in pericolo la stessa banca centrale trasformandola come molti dicono in una sorta di hedge fund?

La risposta alla prima domanda è no. Ma non saranno sufficienti nemmeno le riforme strutturali, occorre rilanciare la domanda interna in Europa e nei Paesi dove più si è ristretta come l’Italia. Non è garantito per esempio che le banche tornino ad allargare il credito. Il punto chiave riguarda gli investimenti privati e qui le incognite restano molte.

Sui tempi, molto dipende anche da come agirà la domanda estera in un’area euro composta da Paesi che esportano molte merci. Gli Stati Uniti sono un’area più chiusa rispetto all’Europa. Dunque l’export potrà diventare il secondo traino insieme alla creazione di moneta.

Quanto al bilancio della Bce, la vera questione è come mai è stato ridotto di oltre mille miliardi tra il 2013 e il 2014, favorendo così le forze deflazionistiche. In fondo, si sta mettendo riparo a un errore dettato evidentemente dalla pressione della Bundesbank quando Draghi non era ancora così forte per resistere.

La Bce ha sparato tutte le sue cartucce (quanto meno quelle più efficaci), oggi come oggi non può fare molto di più. Adesso davvero tutto l’onere della ripresa è sulle spalle dei governi.

Stefano Cingolani


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