Nella primavera-autunno 2014, il ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, ha delineato una proposta di possibile cessione di quote di grandi imprese a partecipazione statale, quali Enel, Eni, StmMicroelectronics. Attenzione, si sarebbe trattato di cessioni per “fare cassa” ed incidere in tal modo sul disavanzo ma soprattutto sul debito pubblico. Il giorno dopo, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, lo ha, in pratica, smentito su Il Sole 24 Ore, sostenendo che grandi imprese a partecipazione statale producono utili, ossia dividendi, che sono rilevanti per la casse dello Stato e permettono di pilotare l’economia reale nella direzione voluta.
Quindi, nonostante le differenze di percorso, l’obiettivo sia del ministro dell’Economia e delle Finanze, sia del Presidente del Consiglio, sembra essere “fare cassa” piuttosto che rendere più efficiente il funzionamento dell’economia ed aumentare la produttività multi fattoriale. Un obiettivo minimale ma nobile, dato lo stato della finanza pubblica e, soprattutto, del debito pubblico dell’Italia.
Questo battibecco può essere visto come un incidente di percorso, che malauguratamente ha coinvolto il Ministro dell’Economia e delle Finanze ed il Presidente del Consiglio, creando non poca confusione e non poco scompiglio sia in Italia sia all’estero. Fortunatamente, la preparazione della Legge di Stabilità ed il dialogo con l’Unione Europea (UE) sulle prospettive a medio termine dell’economia italiana hanno indotto a un’intesa sulle principali strategie, tattiche e misure per privatizzare una parte significativa del patrimonio pubblico, sia aziendale sia immobiliare.
Nel contempo, tuttavia, è in fase avanzata di preparazione la costituzione di un fondo per le aziende in crisi su cui sta lavorando direttamente Palazzo Chigi con la collaborazione principalmente, oltre che di specialisti privati, del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) più che del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF). Potrebbe essere una delle prime misure – dopo i princìpi guida già approvati – all’esame del prossimo Consiglio dei Ministri, dopo l’elezione del Presidente della Repubblica (verosimilmente Valter Veltroni, il quale non darebbe ombra a Matteo Renzi e farebbe diventare il Quirinale un festival perpetuo del cinema e della narrativa contemporanea).
Il fondo avrebbe l’obiettivo di portare aiuti, ossia capitali, pubblici ad aziende in serie difficoltà per facilitarne la ristrutturazione e porle in grado di reggersi sulle proprie gambe entro un lasso limitato di anni. Ci sono, da anni, circa 160 casi di crisi sui tavoli del Mise e del Ministero del Lavoro e degli Affari Sociali; molte di queste “vertenze” riguardano imprese di medie dimensioni, e alcuni grandi pilastri dell’industria italiana (come l’Ilva).
Indubbiamente, un problema c’è ed è molto serio: dal 2008 al 2014, il settore manifatturiero si è contratto dal 22% al 14% del valore aggiunto italiano. C’è il rischio che si ritrovi con un modesto settore industriale un Paese che, privo di materie prime e con un’agricoltura povera, nonché senza una vocazione ed una lingua internazionale – elementi essenziali per sviluppare i servizi, specialmente se finanziari.
C’è chi sostiene che si starebbe preparando una nuova Iri: recentemente all’Università Roma III, in occasione del libro Il Capitalismo e lo Stato di Paolo Leon si respirava un’aria molto favorevole all’intervento pubblico Anni Trenta, recente molto rivalutato dal giovane storico dell’economia Giovanni Farese. C’è chi smentisce nettamente questa ipotesi non solo a ragione del differente contesto e delle regole europee in materia di concorrenza ma anche delle specifiche per avere accesso al fondo il cui capitale verrebbe ‘ritirato’ dall’azienda dopo sette, o al massimo dieci anni.
Si vedrà. Rispetto ad un’economia che ha esigenza di privatizzazioni come se ne ha di acqua quando si traversa un lungo deserto, la proposta pare il passo del gambero.