Pubblichiamo grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori e dell’autore, la prima parte della inchiesta di Antonio Satta uscita sul settimanale Milano Finanza diretto da Pierluigi Magnaschi
Nessuno dei due, a vederli in borghese, senza abito talare, sembra avere il physique du rôle: spalle larghe, corpo massiccio, volto tagliato con l’accetta, eloquio diretto e almeno uno anche una risata forte, coinvolgente. Si tratta di quello più alto, un colosso di due metri, che ha per sovrapprezzo anche un cognome pesante.
Eppure, tra tutti i cardinali, Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco, e George Pell, fino a pochi mesi fa arcivescovo di Sidney, sono quelli a cui Papa Francesco ha dato il compito, per paradosso, più spirituale che ci possa essere: rivoluzionare la finanza vaticana per fare in modo che l’oro della Chiesa vada a chi ne ha bisogno.
Il Papa, venuto da Buenos Aires, sull’argomento ha le idee molto chiare e in una delle sue prime omelie mattutine nella Domus Santa Marta, dove ha scelto di vivere lontano dai regali appartamenti pontifici, lo ha detto papale papale: «Se si vuol fare una Chiesa ricca, allora la Chiesa invecchia», perché «non ha vita. La predicazione evangelica nasce dalla gratuità, dallo stupore della salvezza che viene e quello che io ho ricevuto gratuitamente, devo darlo gratuitamente». Gesù e gli apostoli vivevano così, «San Pietro non aveva un conto in banca», ama ripetere Francesco, aggiungendo che «questa povertà ci salva dal diventare organizzatori, imprenditori. Si devono portare avanti le opere della Chiesa, e alcune sono un po’ complesse; ma con cuore di povertà, non con cuore di investimento o di un imprenditore».
Se queste sono le premesse, il compito che Francesco ha affidato a Marx e Pell è quello di rimettere a posto lo Ior, l’Istituto per le opere di religione, in cui l’ombra delle pessime pratiche dei tempi di monsignor Paul Marcinkus, americano di Chicago e a capo dello Ior nei suoi anni peggiori, continua ad allungarsi.
In un primo momento il Papa voleva addirittura sciogliere, o comunque ribaltare da cima a fondo lo Ior. Diretto come al solito, sempre dal pulpito della cappella della Domus Santa Marta, vedendo davanti a sé alcuni dipendenti della banca, soltanto un mese dopo la sua elezione, se ne uscì dicendo: «Ci sono quelli dello Ior: scusatemi eh, tutto è necessario, gli uffici sono necessari, ma sono necessari fino a un certo punto. La Chiesa», proseguì, «non è una Organizzazione non governativa, è una storia d’amore», di conseguenza lo Ior e gli altri organismi vaticani, sono necessari «come aiuto a questa storia d’amore». Ma «quando l’organizzazione prende il primo posto, l’amore viene giù e la Chiesa, poveretta, diventa una Ong», cioè «diventa un po’ burocratica, perde la sua principale sostanza».
E negli stessi giorni aveva già aperto la sua battaglia contro la Curia, guidata allora, non proprio saldamente, dal cardinal Tarcisio Bertone, controverso segretario di Stato negli anni di Benedetto XVI. La prima e decisiva mossa di Francesco è stata la nomina di una commissione cardinalizia di otto porporati per riformare la Curia. Un organismo rappresentativo di tutti i continenti, che risponde solamente a lui, diventato nei fatti il vero governo di Santa Romana Chiesa e chiamato subito dagli altri porporati il C8 (diventato poi C9, quando ai primi membri s’è aggiunto il successore di Bertone, il cardinale Pietro Parolin). E tanto per far capire l’antifona, nella commissione (Parolin escluso) c’è un solo curiale, Giuseppe Bertello, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, che Bergoglio aveva conosciuto quando era nunzio in Messico, e che aveva stimato ancora di più dopo l’inchiesta, diretta proprio da Bertello, che fece luce sui crimini di padre Marciel Maciel, il fondatore dei Legionari di Cristo.
Gli altri membri della commissione sono Francisco Javier Errazuriz Ossa, arcivescovo emerito di Santiago del Cile, Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston, Andres Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa, Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay, Monsengwo Pasinya, arcivescovo di Kinshasa, Marcello Semeraro, vescovo di Albano, e appunto i cardinali Pell e Marx. Quest’ultimo con la funzione di stratega della rivoluzione nella finanza vaticana, mentre Pell ne sarà il braccio operativo. Marx, infatti, era già l’economista di riferimento di Papa Ratzinger, pur essendo decisamente distante della visione teologica di Benedetto XVI. Marx, che è presidente della Conferenza episcopale tedesca, è fra i capofila dello schieramento progressista sui temi della famiglia e della sessualità.
Più che la sintonia su questi temi, però, nella scelta di Bergoglio, hanno contato altre idee di Marx, quelle sull’economia, raccolte in un saggio pubblicato nel 2008 che con un certo senso dell’umorismo l’autore ha voluto intitolare Il Capitale, con un sottotitolo ancora più esplicito Una critica cristiana alle ragioni del mercato. Per Marx «sono le persone e la terra intera il vero capitale e la Chiesa è chiamata a lottare con unghie e denti per difenderli». Non a caso, sempre nel 2008, di fronte alla Commissione Affari sociali ComeCe (la Commissione episcopale della Comunità europea), Marx si è detto convinto che sia arrivata l’ora «di mettere in atto una governance globale per portare più giustizia, trasparenza e responsabilità nei mercati finanziari mondiali, come da tempo la Chiesa propone».
Idee quanto mai in sintonia con quelle di Bergoglio che di fronte alla bufera della crisi Argentina scrisse: «Non mi sembra che gli organismi finanziari internazionali pongano al centro delle loro riflessioni l’uomo, nonostante le belle parole. Indicano sempre ai governi le loro rigide direttive, parlano sempre di etica, di trasparenza, ma mi appaiono come eticisti senza bontà». E ancora: «C’è stato in questi anni un vero terrorismo economico-finanziario. Che ha prodotto effetti facilmente registrabili, come l’aumento dei ricchi, l’aumento dei poveri e la drastica riduzione della classe media. In questo momento, nella città e nelle zone abitative intorno a Buenos Aires, ci sono 2 milioni di giovani che non studiano e non lavorano. Davanti al modo barbaro in cui si è compiuta in Argentina la globalizzazione economicistica, la Chiesa di questa nazione si è sempre rifatta alle indicazioni del magistero».
Questo è dunque l’humus che ha portato alla svolta dello scorso febbraio, quando sulla base del lavoro del C9, Francesco ha emanato un motu proprio, locuzione latina che identifica una decisione del Papa che non sia proposta da alcun organismo della Curia Romana. E la disposizione ha cancellato ogni precedente gerarchia, creando due nuove strutture per l’indirizzo e la gestione di ogni attività finanziaria della Chiesa, interconnesse fra loro e che rispondono entrambe solamente al Papa.
La prima è il Consiglio per l’economia, l’organo più politico, che ha il compito di «valutare direttive e pratiche concrete, e preparare e analizzare i rapporti sulle attività economiche-amministrative della Santa Sede». È composto da otto cardinali e sette esperti laici. Coordinatore è Marx, gli altri nominati sono Jean Luis Cipriani Thorne, arcivescovo di Lima, Daniel DiNardo, arcivescovo di Houston, Wilfrid Fox Napier, arcivescovo di Durban (Sudafrica), Jean-Pierre Ricard, arcivescovo di Bordeaux, Norberto Rivera Carrera, arcivescovo di Città del Messico, John Tong Hon, vescovo di Hong Kong, e Agostino Vallini, vicario del Papa per la diocesi di Roma.
Membri laici sono il maltese Joseph F. X. Zahra (è il braccio destro di Pell e ha il ruolo di vice coordinatore della commissione), il francese Jean-Baptiste de Franssu, il canadese John Kyle, lo spagnolo Enrique Llano Cueto, il tedesco Jochen Messemer, l’italiano Francesco Vermiglio, e George Yeo, di Singapore.
Alla commissione farà riferimento la Segreteria per l’Economia, che come recita la disposizione del Papa «avrà autorità su tutte le attività economiche e amministrative all’interno della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano. La Segreteria sarà responsabile, tra le altre cose, della preparazione di un budget annuale per la Santa Sede e lo Stato Città del Vaticano, nonché della pianificazione finanziaria e delle varie funzioni di supporto quali le risorse umane e l’approvvigionamento. La Segreteria sarà inoltre tenuta a redigere il bilancio dettagliato della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano».
La vera novità, però è che sotto la Segreteria sono state messe tutte le istituzioni finanziarie: l’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica, cioè l’organismo che si occupa della gestione del patrimonio economico, il Fondo pensioni del Vaticano (per il quale un comitato tecnico sta studiando un adeguamento per garantirne la sostenibilità a lungo termine) e l’Aif, che è l’Autorità di Informazione Finanziaria, l’istituzione che lo Stato della Città del Vaticano ha dovuto costituire per mettersi in regola con le policy di lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo e non finire nella black list dei paradisi fiscali. (continua – 1/3)
Antonio Satta è vicedirettore di MF/MilanoFinanza