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I tempi del ferro e del maniscalco. I puntini dell’acronimo

Questa storia è tutta un onomatopeico tintinnare. Tin, tin, tinnnnnn. Sono i colpi del ferro sul ferro. Del braccio che si piega e si distende prima che la biella con la manovella lo copino nel da farsi. Il braccio che diventa maglio che picchia tin, e picchia, ancora tin, sul ferro altro ferro. Sul ferro a ferro di cavallo. In-can-de-scen-te. Così nascevano gli zoccoli dei cavalli. E quell’odore di bruciato che era quello dell’unghia del cavallo è chimica che solo chi conosce le “porte regali”, sa come sia capace di portarti di là della realtà, nella verità del più bello dei sogni. La storia diventa romanzo quando le narici sono froge che sputano fuori gli umori delle bestie prima che i cavalli diventino tutto vapore e poco cervello. Cambiano gli angoli della postura di uomini e delle più nobili bestie quando si oltrepassano le porte regali. Ieri, ai tempi dei cavalli, del ferro e del maniscalco la schiena dell’uomo imitava quella del cavallo per portamento. Dritta stava. Elegante e signorile. Le scarpe si consumavano di tacco e al centro. Perché la schiena diritta e il buon portamento sono fatto di postura sociale. Non è un caso che per le scienze sociali, infatti, valgono molti dei modelli della biologia. Prova ne è che anche il portamento dei cavalli è superbo ed elegante solo se giusti sono gli zoccoli. Quando i cavalli divennero tutto vapore e poco cervello le schiene dell’uomo hanno finito per piegarsi, sempre, troppo in avanti. Tant’é.
I cavalieri dovevano meritarsi il cavallo, allora. Erano già Wattman, prima degli HP, i cavalieri che alla fine dell’800 si formavano correndo dentro e fuori gli atrii dell’Accademia di Modena. Sapevano condurre un cavallo come una dama nei balli a Palazzo Bricherasio fino al principiare dell’alba. Federico Caprilli fu uno di questi. Il cavaliere volante lo chiamavano. Sui sampietrini Federico Caprilli era quello che Aldo Nadi era sulla pedana di schermidore. Altri tacchi, altri ferri. Stabilì il record facendo alzare l’asticella dell’ostacolo fin sopra i due metri. E con il suo cavallo, ferrato al punto giusto, con il petto in fuori volava in sella, redini in pugno.
Questa storia che forse non è neanche una storia ma solo un rammarico è tanto distante da noi per atmosfere, tempra e postura quanto il Colle di Assietta dista da quello di Sestriere. Figuriamoci da Melfi. La stessa distanza tra un cappello e un berretto. Tra essere storia e diventare romanzo, insomma, c’è quel fatto di quell’acronimo che mantiene le lettere ma perde i puntini.


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