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Bce, arriva il Quantitative Easing alla buffarola?

Le prime anticipazioni le ha pubblicate sabato scorso il settimanale Milano Finanza, con un pezzo intitolato: “Banche, governo e consulenti al lavoro su un piano piano anti-sofferenze”. Poi è stata la volta di Repubblica, che ha aggiunto appena un condizionale: “Circa 50 miliardi di prestiti originali possono essere venduti all’Eurotower a 20 miliardi circa. Eventuali perdite ulteriori per circa il 40%, a causa dei default dei debitori, comporterebbero poi per il governo un indennizzo di 8 miliardi all’Eurotower. Tecnicamente non appare fuori portata, ma restano vari scogli: nessun governo italiano ha mai osato usare denaro pubblico per le banche….”

Il tanto auspicato Quantitative easing della Bce non sarebbe altro che un similsalvataggio, lo spurgo della sentina in cui sono stati accumulati i crediti incagliati delle nostre banche. La banca delle banche, la Bce, finalmente divenuta prestatore di ultima istanza, sarebbe una sorta di pattumiera, la discarica del credito andato a male: la garanzia statale, prestata dalla Repubblica Italiana, ornerebbe con il giusto fiocco il pacco maleodorante, in cui nel frattempo sarebbero stati confezionati tutti i crediti a perdere, ceduti a sconto. Sarebbe una lezione amara per tutti coloro che fin qui hanno onorato i propri impegni, i cittadini che hanno pagato i mutui e gli imprenditori che hanno rispettato le scadenze: invece di mettere mano al portafoglio, magari ricapitalizzando, potevano lasciar fallire l’azienda, e magari ricomprarsela dal curatore ripulita dei debiti. E’ una proposta di gran lunga peggiore rispetto al Troubled Asset Relief Program del Segretario al Tesoro Paulson, rispedito al mittente dal Congresso americano nonostante il crollo di Wall Street, e pure delle procedure di aiuto di Stato cui sono state sottoposte le banche europee: qui ci si limita ad allargare le braccia. Acqua passata, c’est la vie.

Insomma, dopo il “Jobs Act”, avremmo anche un “Banks Act”: se con il primo l’imprenditore può finalmente liberarsi della manodopera sgradita pagando un tot, ma naturalmente mettendo in conto al welfare statale il costo della rimessa in produzione del licenziato, con quest’ultima trovata le banche pagherebbero sì pegno sui crediti deteriorati, ma ancora una volta accollerebbero alle finanze pubbliche il rischio finale. Altro che il tanto proclamato bail-in, la corresponsabilità degli azionisti e dei depositanti nella risoluzione delle crisi bancarie, con la cessione degli asset in bonis per coprire le perdite: abbiamo finalmente inventato lo Stato come debitore di ultima istanza.

Abbiamo perso del gran tempo, non solo l’intero 2014, appresso al Comprehensive Assesment svolto dalla Bce con gran dispendio di energie, agli scenari da capogiro disegnati dall’Eba con gli Stress test, per arrivare a definire il capitale necessario per affrontare i rischi del business sulla base degli Accordi di Basilea II dopo aver depurato gli impieghi poco affidabili con la Asset Quality Rewiew. Bastava spicciarsi con questa soluzione.

Non ci scandalizzano i salvataggi pubblici ma le prese in giro, quelle sì: perché ogni giorno che passa chiudono aziende, falliscono imprenditori e vanno in mezzo ad una strada tanti lavoratori, e naturalmente si incaglia altro credito. Tutti, indistintamente, stiamo pagando il prezzo di errori colossali: da quelli della Bce illusasi di varare una exit strategy alla bersagliera sin dai primi mesi del 2011, a quelli della Commissione Europea istigata dal duo Merkozy, a quelli dei Governi italiani a partire dal giugno del 2011. L’economia italiana è stata massacrata, nel silenzio generale, proprio da chi proclamava di volerla salvare. Intervenire ora solo sull’ultimo anello della catena, sulle perdite accumulate, non è solo iniquo, ma perverso. Dobbiamo pensare ai nuovi investimenti, al nuovo credito, non a quello passato: lasciate che i morti seppelliscano i morti.



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