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Le conseguenze economiche del voto

fonte: oltremedianews.it

“Il popolo greco ci ha dato un mandato molto chiaro, la Grecia lascia l’austerità, lascia dietro di sé anni di oppressione, la Grecia va avanti con la speranza verso un’Europa che sta cambiando”. Con queste parole Alexis Tsipras, nuovo primo ministro greco, ha commentato lo storico risultato emerso dalle urne. Syriza, un partito nato dall’unione tra comunisti, militanti della società civile e dissidenti del Pasok, è dunque la prima forza di governo apertamente socialista e contraria all’austerity in Europa, e l’importanza politica di questo risultato maturerà i suoi frutti già da oggi. Nell’Unione dei grandi sacerdoti di Bruxelles e dei vertici finanziari si è generata una falla creata dal malcontento sociale di chi ha visto naufragare la propria vita contro la crisi economica e la sua pessima gestione da parte delle istituzioni: Syriza ha saputo dare una risposta a queste persone, passando dal 4,5% del 2009 a più del 35% dei voti in questa tornata elettorale, evolvendosi da un semplice laboratorio di idee per una sinistra alternativa ad una sinistra di governo senza perdere il suo radicamento sociale e la sua radicalità politica.

Cerchiamo di capire le implicazioni del voto greco.

La posizione sull’Europa di Syriza è chiara: sette anni di austerità non hanno funzionato ed è ora di cambiare strada. La soluzione? In primo luogo occorre ristrutturare i debiti dei paesi indebitati (cosa su cui è arrivato a convenire persino il Financial Times), in secondo luogo è necessario dare vita ad un vasto piano di investimenti pubblici su scala europea per ridare un po’ di ossigeno alle esauste società del vecchio continente. Il mito dell’austerità espansiva e dell’uscita dalla crisi grazie a politiche economiche fortemente restrittive non esiste e la Troika ha mostrato di essere interessata solo agli aspetti finanziari della crisi europea.

Tuttavia chiunque abbia in mente il mantra dei vincoli del 3% tra deficit e pil e del 60% tra debito e pil, nonché la posizione ultraconservatrice dei paesi nordici in termini di intervento pubblico nell’economia, sa che la partita non sarà né semplice né agevolmente prevedibile. Se infatti da un lato Tsipras e i suoi si sono sempre detti convinti della necessità di affrontare i problemi su scala europea e non solo nazionale, d’altro canto non si può ignorare che tra la sopravvivenza materiale dei cittadini greci e il soddisfacimento dei creditori del Paese (Germania, FMI e Paesi Bassi in testa), i dirigenti di Syriza non avrebbero troppi indugi a schierarsi, come hanno sempre fatto, in favore dei primi. Dunque sì all’Europa, purché si cambino le regole del gioco. Ma siamo sicuri che l’establishment europeo voglia cambiare? Certamente avere un governo di un paese dell’Eurozona che in sede di Consiglio avanzi proposte come quelle sopra riportate non è un elemento trascurabile, ma sarebbe ingenuo immaginare che a Bruxelles non siano pronti al muro contro muro. Lo scorso dicembre il Fondo Monetario, a mo’ di ammonimento verso gli elettori e senza troppi convenevoli per la democrazia, ha sospeso gli aiuti alla Grecia in attesa del risultato delle urne, mentre il Quantitative Easing di Draghi, per motivi legati al rating del titoli acquisibili dalla BCE, ha di fatto estromesso il paese dal programma. In mattinata i vertici di Bce e Commissione Europea hanno convocato una riunione di urgenza per capire come muoversi: il piano di salvataggio europeo nei confronti della Grecia, senza cui il paese risulterebbe insolvente e costretto a dichiarare default sul debito, scade il prossimo mese, ma probabilmente verrà prorogato fino a questa estate con l’auspicio di riuscire a contenere le richieste greche. Qualora dovesse verificarsi una fuga di capitali, la Grecia potrebbe accedere al fondo OMT, con cui la Bce si impegna ad acquistare titoli di stato in quantità illimitata e che per definizione prevede una sorta di socializzazione del debito di un singolo paese, ma le condizionalità da rispettare sono decisamente troppo stringenti per rendere l’opzione una scelta convincente.

Credere che la Grecia dichiari default e receda dall’Unione appare tuttavia improbabile. Come ha ricordato il giornalista greco Dimitri Deliolanes in una nostra recente intervista, “la guerra è guerra e fa male a tutti”, a sottolineare che un fallimento greco non sarebbe privo di ricadute sugli altri paesi europei, che hanno tutto l’interesse a far sì che il paese resti nell’Unione e soprattutto entro i ranghi stabiliti da frau Merkel. Dunque ci sarà un braccio di ferro, questo è certo, e la partita verrà giocata sull’abilità di Syriza nell’ottenere la rinegoziazione del debito senza arrivare allo scontro frontale – magari anche con l’appoggio di altri paesi indebitati – e sulla capacità dei creditori di concedere il minimo possibile.

Per quanto riguarda la politica interna, il lavoro di Syriza sembra invece più facilmente prevedibile. Gli schieramenti To Potami e gli indipendenti di centrodestra contrari all’austerity di Anel si sono detti disponibili ad un appoggio esterno al governo, dunque la maggioranza assoluta dovrebbe essere garantita. Servirà prestare attenzione ai rapporti tra Nea Demoktratia e Alba Dorata, che già in passato hanno collaborato e che potrebbero ostacolare i piani di Tsipras, ma la stabilità interna non sembra essere a rischio.

L’Europa delle lobby  e della deregulation ha perso. La vittoria di Syriza ha un enorme valenza politica in termini di capacità di organizzazione e convogliamento delle forze al di là delle logiche finanziarie che guidano la politica negli altri paesi europei: probabilmente la sua forza contrattuale nell’Unione è troppo piccola per riuscire a dare completa attuazione ai suoi programmi (la Grecia contiene circa un cinquantesimo della popolazione dell’Unione e rappresenta poco più dell’1% del suo Pil), ma le imminenti tornate elettorali in Spagna e Regno Unito segneranno con ogni probabilità un ulteriore passo contro l’austerità. A questo punto la questione esce dall’alveo economico per tornare in quello che le compete, cioè nella sfera politica. Spagna e Grecia avranno un governo di sinistra, in Inghilterra gli ultranazionalisti di UKIP, che pure hanno festeggiato per la vittoria di Tsipras, hanno già palesato la loro volontà di uscire dall’UE. I cittadini di tutti e 28 i paesi hanno il cruciale incarico di decidere se vale la pena rispolverare il progetto dell’Europa dei popoli o se tornare a brucare nel proprio orticello di provincia. Chiunque abbia parteggiato per Syriza, se non vuole tradire lo spirito stesso del partito greco, ha anche il difficile compito di non delegare più la sua partecipazione. In questo modo si può vincere, i greci ci hanno avvisato.


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