Skip to main content

La nuova fisionomia dei partiti politici

Perché i moderati intraprendano una nuova avventura, però, deve avere ancora un senso costruire partiti. E qui siamo al secondo punto interrogativo da cui muove questa riflessione. Nell’epoca dei social network, della fine del finanziamento pubblico (che per Ncd non è mai iniziato!), delle primarie anche per eleggere il capo di un condominio, varare una nuova formazione politica appare un’opera titanica. Un po’ come edificare un teatro lirico nella giungla.

Nessuno in questo campo può permettersi di essere nostalgico, vagheggiando il ritorno a quelle formazioni-cattedrale che integravano l’individuo dalla culla alla tomba in una sorta di piccolo Stato nello Stato. Partiti di quel tipo hanno dominato la politica del Vecchio Continente dalla fine della Prima Guerra Mondiale fino agli anni Settanta dello scorso secolo. In Italia sono durati anche oltre. Ma ora sono morti per sempre.

L’ESSENZA DEI PARTITI

I partiti si definiscono ormai in base alla forza delle risposte contingenti che sono in grado di offrire e alle “virtù” mediatiche dei loro leader. La capacità di comunicare vale oggi più del contenuto, l’apparenza più della sostanza. E questa inversione di paradigma è un fatto: può piacere o non piacere, ma resta una realtà con la quale fare i conti.

Ciò premesso, c’è tuttavia da chiedersi: può un sistema politico fare a meno di comunità politiche stabili? E possono comunità politiche stabili fare completamente a meno di un fondamento valoriale, cioè di pochi ma intangibili principi che definiscano una visione e un orizzonte?

Io penso di no. Per ragioni concrete che nulla hanno a che fare con la nostalgia. Innanzi tutto perché l’evoluzione di un sistema politico è anche lo svolgimento di una trama che ha bisogno di soggetti stabili. Ricominciare ogni volta da capo prescindendo da una legittimazione reciproca tra le formazioni che si contendono il potere condanna un Paese a una presenza contraddittoria e intermittente in un mondo globale nel quale, per competere, servono invece forza, durata, coerenza e soprattutto certezza.

L’IMPORTANZA DELLA FAMIGLIA POLITICA

Perché una comunità politica si stabilizzi, però, non basta iscriversi a una famiglia politica internazionale. In altri termini, che in un Paese vi siano forze aderenti al Pse e al Ppe è condizione necessaria ma non sufficiente affinché si produca anche in sede nazionale un’ordinata e fisiologica competizione bipolare. È un presupposto indispensabile, ma non assicura la soluzione del problema.

Nei momenti storici di crisi profonda – e questo è uno di quei momenti – le famiglie politiche sovranazionali hanno sempre patito il conflitto che inevitabilmente in tali frangenti si genera tra l’interesse generale (o almeno presunto tale) che esse ambivano a rappresentare e la spinta di questo o quel membro costretto a tener presente l’interesse particolare del proprio Paese.

Al tempo del primo e del secondo conflitto mondiale questa dinamica ha messo in crisi le Internazionali socialista e comunista – vere e proprie corazzate dell’ideologia –, provocando sconvolgimenti e drammi.  C’è, dunque, di che temere per la sorte di ben più leggere imbarcazioni, come il Ppe e il Pse, in presenza di tempeste forse meno cruente ma non certo meno durature e profonde, come quelle che stanno investendo ormai da sei anni il Vecchio Continente.

PESSIMISMO EUROPEO

L’essere fuoriusciti dal secolo delle ideologie, infatti, oggi non garantisce alle famiglie politiche europee maggiori chances di quelle che avevano ieri le grandi organizzazioni internazionali di superare la tempesta salvaguardando la coesione fra i loro membri. Questo pessimismo è fortemente suffragato da due elementi che, a mio avviso, si alimentano a vicenda.

Pesa innanzi tutto il fatto che l’Europa non riesca a darsi un’identità né a costruire un nucleo politico condiviso. L’Unione Europea somiglia sempre di più a un uomo disarmonico con un braccio troppo sviluppato (quello dell’unità economica e monetaria) e l’altro atrofizzato (quello dell’unità politica). In queste condizioni è difficile che qualcuno, in suo nome, si proponga come punto di riferimento e guida nel tentativo di amalgamare le diverse proposte politiche nazionali.

In questa prospettiva si comprende appieno il secondo elemento di pessimismo: la scollatura sempre più profonda tra i Paesi della cosiddetta Europa baltica e quelli dell’Europa mediterranea.

FARE L’EUROPA

“Fare l’Europa” ha sempre significato trovare una sintesi politico-culturale tra quella parte del Vecchio Continente nella quale lo Stato di diritto prevale sulla persona fino al punto da negarne la centralità e quella in cui, invece, proprio questa centralità appare esorbitante fino a rischiare di sconfinare in una patologica prevalenza delle reti e delle relazioni extra-statuali.

Da un po’ di tempo, però, Tonio Kroeger – l’eroe di Thomas Mann che nel suo percorso esistenziale attraversa, tiene insieme, esalta la bellezza diversa ma complementare di queste due Europe – sembra aver interrotto il suo viaggio. L’integrazione economica, politica, culturale tra le due parti del Continente che hanno in comune il sogno europeo segna una evidente battuta d’arresto. Persino il precipitato politico-culturale del protestantesimo e del cattolicesimo sembra oggi allontanarle.

Anche per questo, è difficile immaginare che le linee di frattura che si sono autodeterminate in sede sovranazionale nella conflittualità tra le grandi famiglie politiche continentali possano automaticamente riflettersi nei contesti nazionali.

I RISCHI DEI PARTITI

Si pensi ad esempio al conflitto tra rigore e crescita che, ridotto all’osso, appare come il principale punto di scissione tra i popolari europei guidati da Angela Merkel e i socialdemocratici non solo franco-italiani. Difficile non ammettere come quella frattura assuma un significato differente in Paesi con bilanci fondamentalmente sani, rispetto ad altri che hanno debiti pubblici incombenti, accumulati generazione dopo generazione da classi politiche sia di sinistra sia di destra che magari si sono reciprocamente delegittimate ma hanno agito all’unisono nell’ipotecare il futuro delle generazioni che sarebbero venute dopo di loro.

Oltre alla adesione a una famiglia europea, per essere partito serve insomma avere dei principi in proprio. Nessuno pensa più alla riproposizione di uno strutturato e quasi dogmatico corpus dottrinale d’altri tempi, né a programmi “omnibus” caratteristici di un partito piglia-tutto. Se però da questo estremo si passa al più assoluto relativismo, non c’è più la possibilità di avere partiti stabili che si proiettino nel tempo con l’ambizione di durare e, con essi, si perde nelle brume di una presunta modernità quella nobiltà della politica che lega l’impegno a un interesse più alto di quello strettamente personale e contingente. Lo comprese Alexis de Tocqueville nel suo viaggio in America, quando descrisse i rischi, opposti ma complementari, che un Paese corre se i suoi partiti sono dominati da interessi troppo piccoli o, di contro, da ideali troppo grandi. Sotto questo punto di vista, le cose da allora non sono cambiate.

CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter