Sono Charlie: penso, dico, scrivo e disegno quello che voglio; viva la libertà. Nelle strade e nelle piazze di tutta la Francia più di 4 milioni di persone hanno urlato il loro diritto alla libertà. E ora? Due problemi emergono subito; e sono imbarazzanti.
Per avere più libertà bisogna lasciare allo Stato e alle sue polizie maggiori spazi di intervento, di controllo e di repressione; cioè, meno libertà per la gente, che potrà essere controllata e fermata, a discrezione delle autorità di polizia. Controlli telefonici; dove cominciano e dove terminano? Arresti: con quali limiti? Isolamento carcerario degli islamisti; come a Guantanamo? Riaprono le tropiche prigioni della Guyana francese? Limitazione dei movimenti nello spazio europeo; rinegoziazione del trattato di Schengen? Sua revisione? Frontiere?
Insomma tutte queste misure, che sono allo studio del governo francese, vanno a limitare quella libertà urlata dal popolo; anche se il popolo ha unito il suo grido libertario all’applauso sincero e a volte entusiasta alla polizia (che per la prima volta forse si è sentita amata dalle piazze). Queste, sulla limitazione dei diritti e delle libertà, sono misure delicate; forse il governo, anche interpretando lo spirito delle grandi manifestazioni popolari unitarie (la stessa Le Pen ha invitato la sua gente a scendere in piazza contro il fanatismo islamico e per la libertà), potrebbe concordare con l’opposizione questi provvedimenti che, passata l’ondata del “je suis Charlie Hebdo”, potrebbero rivelarsi liberticidi nella Francia repubblicana della liberté, egalité, fraternité.
La grande presenza di solidarietà internazionale, ma soprattutto europea, alla manifestazione di Parigi ha evidenziato, per contro, alcune assenze del mondo arabo, non facilmente interpretabili o spiegabili. Armi, risorse e organizzazione del brigatismo islamico vengono probabilmente dall’area araba del Medio Oriente, da quelle guerre e soprattutto dall’offensiva sunnita nello scontro infra-musulmano con gli sciiti. Il Qatar possiede la squadra di calcio di Parigi, oltre a grandi palazzi, alberghi e proprietà diffuse in tutto l’esagono; un qatarino e un francese (Al Attya-Baumel) stanno vincendo in coppia la Paris-Dakar, in Argentina; il Qatar ha un accordo finanziario solido con la Francia. E ora? Ha mandato un cadetto della famiglia del principe a rappresentarlo; come dire, negli affari e nei giochi, tutto bene; per il resto, non chiedeteci altro.
Più o meno la stessa cosa ha fatto l’Arabia Saudita. I dubbi sul loro sostegno materiale al brigatismo islamico cominciano ad avere delle prove a sostegno. La matassa dei sostegni economici e logistici al brigatismo islamico è intricata; ma il bandolo comincia a comparire. D’altro lato i sistemi anti-democratici e aberranti adottati nei loro Paesi (è di ieri la notizia che tal Raif Badawi è stato condannato a dieci anni di prigione e mille frustate, di cui 50 date subito, per blasfemia in Arabia Saudita), mal si conciliano con possibilità di dialogo politico con gli Stati europei e le loro democrazie. Molti dei manifestanti di questi giorni lo hanno pensato; e hanno avuto una gran voglia di urlare basta! Basta giocare; basta con i beni di questi regimi in Francia; se non fosse per il petrolio. Già il petrolio, motore del mondo e quindi strumento di tutti poteri, di tutte le politiche, di quasi tutte le guerre, oggi combattute sulla terra. Fino a quando?
Anche lo Yemen non c’era a Parigi; eppure qualcuno dei brigatisti veniva da là, da quei campi di addestramento, da quelle scuole di brigatismo islamico. E nei cortei francesi che urlavano per la libertà, in tanti hanno pensato anche a quei campi; ad andare a smantellarli, con le buone o con le cattive; ad andare alle fonti del terrorismo per combatterle sul serio e non per parata; per vincere, non per partecipare. Altro che la Siria di Assad! Nelle strade di Francia il popolo ha pensato anche a questo: e i raid aerei francesi sull’Isis in Iraq e Siria sono stati intensificati.
Ecco: dai cortei francesi non vengono buone notizie; una guerra sembra avviata e il governo francese comincia a lamentarsi di essere stato lasciato solo dagli altri Paesi dell’Unione Europea, che marciano per le strade, ma non combattono. Un po’ come quello italiano, a Lampedusa.