Skip to main content

Come scegliere (bene) il nuovo presidente della Repubblica

L’Italia insiste nel richiedere flessibilità per il proprio deficit di bilancio pubblico, mentre la Francia ha deciso unilateralmente di violare le regole europee in materia. Draghi va negoziando da tempo la possibilità di avviare politiche di QE simili a quelle praticate dagli Stati Uniti e da altri paesi, compreso il Regno Unito che, pur beneficiando del mercato comune, ha una banca centrale libera di agire.

Paesi e persone influenti continuano a chiedere nuove politiche e non invece il cambiamento dell’architettura istituzionale su cui si regge la crescita e la vita dell’euro, ignorando che, come ci ha insegnato Giuseppe Guarino, occorre cambiare architettura se si vuole cambiare politica. Ho espresso queste idee in un recente dibattito tenutosi a Bruxelles e la risposta datami da un direttore generale della Commissione è che l’Italia non chiede ufficialmente una modifica dell’architettura europea, ma solo di agire il violazione degli accordi europei che ha liberamente sottoscritto.

In una mia lettera aperta a Mario Draghi apparsa sul quotidiano Milano Finanza ho insistito sul fatto che, se si ostina, come va facendo, a chiedere di attuare politiche che sono in contrasto con lo Statuto attuale della BCE, rischia una paralisi giuridica della sua politica, dopo i gravi ritardi che ha accumulato, con conseguenze ancora più gravi sull’economia europea, già provata dalla deflazione. Deve perciò chiedere la modifica del suo Statuto per equipararlo a quello della Fed: allargare l’obiettivo di stabilità dei prezzi per includere la crescita e i canali di creazione dell’euro per consentire di intervenire la difesa dei debiti degli Stati europei e del cambio estero dell’euro. Ovviamente da esercitare in piena indipendenza e sua piena responsabilità. Se non gli verrà concessa questa modifica, la responsabilità di ciò che accadrà non sarà sua.

Renzi né Draghi chiedono una modifica dell’architettura istituzionale europea e invece insistono nel richiedere cambiamenti di politiche che, semmai fossero concesse e ne usufruissimo, comporterebbero l’accettazione di vincoli tali da farci perdere quel residuo di sovranità fiscale di cui ancora disponiamo. L’Italia non sarebbe più uno Stato sovrano, ma una colonia economico-politica.

Dato che l’Europa non è disposta a fare il passo indispensabile dell’unificazione politica, il tema di quale sia attualmente e quale debba essere la nostra Costituzione per restare uno Stato sovrano, dovrebbe essere posto al centro del dibattito nella scelta del nuovo Presidente della Repubblica. Egli sarà nominato per mantenere il ruolo di custode dell’attuale Costituzione oppure per accompagnarne una modifica in chiave europea tale che la sovranità ceduta ritorni meglio gestita e non peggio come accade attualmente?

Questo “contratto di ingaggio” per il nuovo Presidente va stabilito a priori, con la votazione almeno di un ordine del giorno del Parlamento riunito, nel quale si ribadisce che, se l’Italia resta in Europa, deve pretendere l’attuazione degli impegni di pace e di benessere che ci avevano indotto ad accettare gli accordi europei, da quelli siglati a Maastricht (la creazione dell’Unione Europea) e a quello di Amsterdam (il Patto di stabilità e crescita, di cui si è persa la seconda parte). Il problema non è né il mercato comune, né l’euro in se stesso, ma l’architettura distorta che li regge. La scelta di iniziare un negoziato dall’esito incerto, ma aperto sulla base di richieste precise, potrebbe implicare attacchi speculativi simili a quelli che ha subito e subisce la Grecia per il solo fatto che “vuole rinegoziare gli accordi”. Non sarebbe plausibile che avvenga perché sarebbe il preludio di un’Europa che riprende a crescere, ma non si può escludere una miopia del mercato. Se si decidesse di procedere – ed è l’unica soluzione politica ragionevole – il Governo che il nuovo Presidente dovrà insediare dopo la sua nomina dovrebbe avere tutte le caratteristiche per gestire un difficile negoziato e per fronteggiare la situazione difficile che si verrebbe a creare in caso di insuccesso.

Il problema della spaccatura del Paese si potrà celare dietro la cortina fumogena di una ripresina, diciamo tra lo 0,5 e l’1% o anche di più (come per l’ennesima volta viene previsto imprudentemente dall’Istat nei prossimi mesi, mentre il Governo ha invece capito la lezione delle previsioni sbagliate). Se così fosse significherebbe che il Nord crescerà il doppio e il Sud regredirà; la media sarà quella del celebre detto di Trilussa che, se due persone dispongono di un pollo e uno solo se lo mangia, le statistiche registreranno mezzo pollo a testa. Questo chiuderà il ciclo della Nuova Costituzione: dalla “Repubblica della pera divisa” del Presidente Einaudi ricordata da Ennio Flaiano alla “Repubblica dello sviluppo diviso” del Nuovo Presidente (se non pone rimedio).

Leggi l’articolo completo su scenarieconomici.it


CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter