Giorgio Napolitano, 89 anni, è stato il primo Presidente della Repubblica italiana ad aver svolto due mandati, iniziati rispettivamente nel 2006 e nel 2013. Con le dimissioni di oggi inizia il percorso per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, il passaggio politico più importante del 2015 che darà un’impronta decisiva al seguito della XVII Legislatura.
LE NORME COSTITUZIONALI PER L’ELEZIONE
L’elezione del Presidente della Repubblica è disciplinata dal Titolo II della Carta Costituzionale agli artt. 83, 84, 85 e 86. Il Presidente viene eletto dal Parlamento in seduta comune. L’elezione ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi dell’Assemblea, al fine di garantire il consenso più ampio possibile. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta. All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione. I delegati regionali devono essere scelti in modo da assicurare la rappresentanza delle minoranze. È consuetudine quindi che i consigli regionali scelgano uno dei tre delegati tra le file dell’opposizione, mentre gli altri due sono scelti tra le cariche principali degli organi regionali: Presidente o Vicepresidente della Regione, Presidente del Consiglio Regionale o Capogruppo del partito di maggioranza.
Può essere eletto Presidente della Repubblica qualsiasi cittadino che abbia compiuto 50 anni d’età e goda dei diritti civili e politici. Il Capo dello Stato entra in carica dopo aver prestato giuramento al Parlamento ed il mandato dura 7 anni. Nel caso di dimissioni del Presidente (dunque il caso di Giorgio Napolitano), il Presidente della Camera dei Deputati indice l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica entro quindici giorni. Nel periodo che intercorre tra le dimissioni del Presidente uscente e l’elezione del nuovo Capo dello Stato, le funzioni del Presidente della Repubblica vengono esercitate dal Presidente del Senato.
UN PO’ DI STORIA
Dal 1994 a oggi, durante la cosiddetta Seconda Repubblica, il Parlamento si è riunito in seduta comune per eleggere il Presidente della Repubblica solamente in tre occasioni:
I. nel 1999, al tempo del primo governo Prodi, quando l’allora Ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi venne eletto Presidente grazie al sostegno trasversale di maggioranza (centrosinistra) e opposizione (centrodestra);
II. nel 2006, per eleggere Giorgio Napolitano, con i soli voti del centrosinistra di Romano Prodi, fresco vincitore delle elezioni politiche di aprile, benché con un margine molto risicato sul centrodestra guidato da Silvio Berlusconi (lo scarto elettorale fra gli schieramenti fu appena dello 0,04% dei consensi);
III. nel 2013, per rieleggere Napolitano al sesto scrutinio con i voti dei principali schieramenti parlamentari (738 preferenze su 1007) al fine di superare lo stallo venutosi a creare dopo le clamorose bocciature di Franco Marini (1° scrutinio) e Romano Prodi (4° scrutinio).
In considerazione del fatto che il Capo dello Stato rimane in carica per 7 anni (scelta dei costituenti per evitare che il mandato presidenziale e la legislatura scadessero contemporaneamente e fornire quindi un elemento di stabilità istituzionale) e poiché nell’ultimo periodo il Quirinale è arrivato a ricoprire un ruolo quasi “suppletivo” rispetto a quello del potere politico (tanto da delineare una cesura anche molto profonda fra Costituzione formale e materiale), l‘elezione del Presidente della Repubblica rappresenta la sfida più importante dell’attuale legislatura, destando e alimentando l’interesse di ogni forza politica che siede oggi in Parlamento.
I NUMERI
1009 grandi elettori sceglieranno il successore di Giorgio Napolitano: 630 deputati; 321 senatori (315 eletti e 6 senatori a vita – Napolitano, Ciampi, Rubbia, Piano, Cattaneo, Monti); 58 delegati delle Regioni. L’elezione ha luogo a maggioranza di due terzi dell’Assemblea nei primi tre scrutini (672 su 1009). Dal quarto è sufficiente la maggioranza assoluta (505 su 1009).
Da un punto di vista numerico, la platea dei 1009 grandi elettori è in apparenza la stessa dell’aprile 2013, benché, da allora, connotati e numeri della maggioranza siano andati modificandosi anche profondamente. Se nel 2013 il centrosinistra (formato da PD e Sel) contava in partenza su 496 voti, ovvero poco meno del quorum richiesto dal quarto scrutinio in poi (i 504 voti della maggioranza assoluta), oggi la coalizione che sostiene il governo Renzi (PD-NCD-Scelta civica-Per l’Italia, transfughi di SEL, gruppo misto) dispone di un numero che oscilla fra i 570 e i 600 grandi elettori parlamentari.
A questi vanno aggiunti i diversi delegati regionali, appartenenti in larga parte allo stesso Partito Democratico che ha recentemente incrementato la propria quota dopo aver strappato al centrodestra le regioni di Sardegna, Piemonte, Abruzzo e Calabria. Se il premier Renzi dovesse decidere di procedere a colpi di maggioranza, senza coinvolgere Forza Italia, Movimento 5 Stelle, Lega o SEL, a partire dalla quarta votazione avrà a sua disposizione un margine di sicurezza ragionevole.
Fino ad allora il quorum sarà infatti più alto (672 voti, ovvero i due terzi dei grandi elettori). In realtà, l’esperienza traumatica dell’aprile 2013, in cui i famosi 101 franchi tiratori del PD non consentirono l’elezione di Romano Prodi, consiglia prudenza, motivo per cui lo stesso Primo Ministro finirà per cautelarsi ricercando un accordo ampio e preventivo con le altre forze parlamentari. Fra queste svettano Movimento 5 Stelle e Forza Italia, che porterebbero in dote rispettivamente 137 e 130 parlamentari.
Al momento è probabile che Renzi vorrà dare precedenza al contraente del cosiddetto “Patto del Nazareno”, confermando la linea sin qui seguita nell’iter di approvazione delle Riforme Costituzionali e della legge elettorale. Non è da escludere che il Patto abbia già previsto un nome per il prossimo inquilino del Quirinale. Nel caso in cui volessero dunque presentare e sostenere la propria candidatura, dopo il terzo scrutinio – quantomeno numericamente – Partito Democratico e Forza Italia non dovrebbero avere problemi a imporre il proprio nome, poiché la somma dei rispettivi grandi elettori garantirebbe loro 545 voti. Somma che potrebbe inoltre aumentare grazie ai delegati regionali o nel caso in cui il candidato prescelto dovesse riscuotere l’approvazione di altri gruppi “moderati”, quali NCD (70 grandi elettori) o Scelta Civica (32 grandi elettori).
Su questo scenario si innestano le resistenze delle minoranze interne al PD e a FI che, giovandosi dello scrutinio segreto, potrebbero puntare a disinnescare la candidatura promossa dal ticket Renzi- Berlusconi e a mettere alla prova la tenuta stessa del Patto.
La doppia presidenza Napolitano, caso di per sé unico nella storia della Repubblica, ha infatti dimostrato che a fronte di profonde crisi istituzionali e in presenza di un Capo dello Stato particolarmente carismatico e autorevole, anche una carica pensata per svolgere funzioni
rappresentative e di garanzia può indirizzare e guidare un potere politico altrimenti incapace di superare stalli istituzionali apparentemente insormontabili. La partita per l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica vedrà così contrapposti quanti punteranno a eleggere un Capo dello Stato forte e indipendente, slegato da vincoli di subalternità da Governo e Parlamento sulla falsariga di quanto emerso con Giorgio Napolitano a partire dal 2011. E quanti, al contrario, proveranno a riportare il ruolo del Presidente alle prerogative formali dettate dalla Carta Costituzionale, per insediare al Colle una figura che non intervenga con eccessiva frequenza nell’attività di governo.