Gli uomini giungono insieme nelle città allo scopo di vivere; rimangono insieme per vivere bene (Aristotele)
Le grandi città e soprattutto Londra assorbono la linfa migliore da tutto il resto dell’Inghilterra (Alfred Marshall, Principi di economia)
La città è luogo di una identità che si ricostruisce continuamente a partire dal nuovo, dal diverso
(cardinal Martini)
Nel 2008, per la prima volta nella storia, la maggioranza della popolazione mondiale viveva all’interno delle città. Nel 1900 era solo il 13% e si prevede che entro il 2050 questa percentuale salga fino al 70%. Il fenomeno è diffuso su tutto il pianeta. Un centinaio di anni fa, meno di venti città nel mondo avevano una popolazione superiore al milione di persone. Oggi sono 450 e continueranno a crescere nel prossimo futuro. Ad esempio a Mumbai arrivano ogni ora 44 nuovi cittadini, 380 mila persone all’anno.
Uno dei driver che stanno caratterizzando la (ri)nascita delle città è l’affermarsi dell’economia dei servizi, che non si limita ad assorbire molti occupati, ma è da diverso tempo la componente più importante del PIL.
Non si tratta solo di un dato puramente quantitativo. La crescita di importanza dei servizi sta cambiando qualitativamente il funzionamento del sistema economico, con modalità che sono ancora in parte inesplorate. E – come noto – il luogo elettivo di sviluppo dei servizi sono le città. La nuova classe creativa e l’ecosistema delle startup sono due esempi strettamente legati alla dimensione innovativa dell’economia dei servizi.
La città diventa dunque il luogo non solo dei grandi problemi della contemporaneità – consumo energetico dilagante, produzione di gas serra, concentrazione della criminalità, povertà in crescita – ma anche – e forse soprattutto – delle grandi opportunità di sviluppo (non solo culturali e sociali ma anche economiche). Nelle città viene infatti prodotto più del 50% del PIL mondiale e questa percentuale cresce nei paesi più sviluppati. I centri urbani occupano più del 2% della superficie terrestre e in città viene consumato circa il 90% delle risorse prodotte nel mondo. In questo ambito nasce il filone delle Smart Cities: l’applicazione – sperabilmente intelligente – delle nuove tecnologie per migliorare il vivere urbano.
Guardando in particolare all’Italia, l’aspetto che forse più caratterizza le nostre città italiane è il loro cuore antico, il centro storico e il patrimonio culturale diffuso: più che un limite verso la loro modernizzazione, questa caratteristica è invece una straordinaria occasione per una forte caratterizzazione identitaria e può (anzi deve) diventare il laboratorio a cielo aperto dove sperimentare le tecnologie e le soluzioni più avanzate. Ma vi sono altri aspetti che caratterizzano le città italiane: essere organizzati attorno alle piazze, una forte dimensione turistica, una diffusione della cultura imprenditoriale artigiana e del commercio al dettaglio, una visione unica del welfare, una cultura dell’alimentazione che si declina anche in rapporto alla città.
Queste specificità comportano risposte differenziate alla sfida delle nuove tecnologie per la città: non solo efficienza energetica, dunque, né riduzione dell’inquinamento, controllo della sicurezza o mobilità sostenibile, ma anche valorizzazione dei centri storici, creazioni di strade del commercio e “centri commerciali naturali”, introduzione di nuove soluzioni di welfare, realizzazione di filiere corte alimentari. L’identità di una città va infatti tutelata e rafforzata e ciò è importante per molti motivi, ma soprattutto per il fatto che le città competono oramai fra di loro: per le risorse comunitarie, per i talenti, per i turisti.
Le tecnologie applicabili al contesto urbano sono moltissime: rigenerazione urbana, design dell’esperienza, sensoristica e nuovi materiali, NGN, Cloud e Internet of Things, nuovi sistemi di mobilità di persone e merci, solo per citarne alcune. Ma per cogliere in maniera autentica e duratura le grandi opportunità aperte dalla sempre più esuberante innovazione tecnologica, le tecnologie devono ritornare ad essere strumenti (e non fine) e vanno comprese in profondità, per coglierne con chiarezza non solo le straordinarie opportunità, ma anche le ombre o addirittura i lati oscuri – peraltro in silenzioso ma costante aumento.
L’OCCASIONE DELLE SMART CITIES
Le Smart Cities sono il capitolo recente di un libro che ha origini antiche e che ha cercato – nel suo svolgimento – di definire la città ideale, il luogo desiderato dove si sarebbe voluti (e spesso dovuti) vivere. E questa sua appartenenza al pensiero utopico ne svela alcune dimensioni ideologiche e irrazionali che sono spesso nascoste dal linguaggio asettico e apparentemente oggettivo della tecnologica.
Il modello prevalente di Smart City non tiene conto di una dimensione rilevantissima della città, che non è solo quella che viene amministrata e quella che consuma, ma quella che produce, dimensione sempre più importante perché – come si ricordava all’inizio – il settore dei servizi “abita” prevalentemente in città. La vera sfida futura è dunque capire come utilizzare la tecnologia anche per rendere le aziende che operano in città più efficaci e competitive, cosa che al momento avviene in modo marginale. Oggi la città sta diventando il cuore della nuova economia e richiede nuove infrastrutture e nuove piattaforme di conoscenza: è in questo ambito che il ruolo delle Camere di Commercio diventa essenziale e deve affiancare quello del sindaco. È infatti sempre più necessario un modo diverso e più corale di pensare il futuro dello spazio urbano, per rigenerare – se non addirittura ricostruire – i tessuti economici, sociali e culturali delle città.
I filoni innovativi relativi alla componente produttiva della città italiana possono essere raccolti in cinque grandi ambiti:
– I Distretti Urbani del Commercio
– L’ultimo miglio della produzione urbana: le nuove frontiere dell’artigianato
– I centri storici e il turismo culturale
– Il rapporto cibo–città e la “food infrastructure”
– La sfida del welfare urbano … e della social innovation
Vi è poi un ultimo filone – tema un po’ a sé ma di crescente importanza – chiamato “Living Labs”: i nuovi cantieri dell’innovazione urbana che consentono di sperimentare in vivo le nuove soluzioni tecnologiche.
È venuto dunque il momento di dare corpo e dimensione tecnologica e infrastrutturale ad alcuni progetti visionari nati – nel corso del tempo – dal mondo delle associazioni di categoria (ad esempio i centri di commercio naturale/strade del commercio, i distretti artigiani, gli orti urbani, la catena corta alimentare, …) creando le condizioni non solo per la loro attuazione ma anche per una replicabilità delle buone pratiche.
Il tema delle Smart Cities deve dunque diventare un’occasione concreta per il ripensamento delle politiche urbane tese allo sviluppo economico e non solo una banale competizione per assicurarsi dei bandi comunitari. I soldi servono ad “accendere” progetti , a sperimentare prototipi, creando le condizioni per un successivo sviluppo. Sono seed money come direbbero i venture capitalist, e quindi strumento per incominciare la crescita e non fine a se stessi.
Vanno quindi impiegati all’interno di un progetto di sviluppo o rigenerazione più ampio, che veda la tecnologia come valido alleato e non come protagonista assoluto. Bisogna quindi (ri)partire dai progetti urbani dagli obiettivi di miglioramento della vita in città, da bisogni manifestati dalle imprese che operano nella città e domandarsi come le tecnologie – digitali e non – possono fattivamente contribuire a questi obiettivi.
Vi sono oggi tre importanti occasioni di ripensamento – in senso evolutivo – delle politiche urbane:
– il decollo delle città metropolitane
– la progettualità nata dalla candidatura a Capitale Europea della Cultura 2018
– il ruolo delle città come incubatori e soprattutto acceleratori delle nuove imprese
Analizziamo brevemente ciascuno dei tre temi.
Innanzitutto le nascenti città metropolitane. La loro costituzione – come già capitato in molti casi europei – avviene per rispondere ai problemi di una realtà territoriale effettivamente più complessa e articolata rispetto alle altre città. L’obiettivo della loro creazione è il poter raggruppare una serie più ampia di deleghe (e risorse) che consenta all’amministrazione metropolitana di intervenire non solo sui temi strettamente urbani ma anche (forse soprattutto …) sullo sviluppo economico, sui flussi di merci e persone, sulla pianificazione territoriale, sull’attrazione di investimenti esteri, …. Questa definizione evolutiva di città assorbe dentro il suo perimetro gli spazi – agricoli, di collegamento stradale, paesaggistici (pensiamo alla laguna di Venezia) – che un tempo erano considerati per definizione “extra moenia”. La città non si limita ad ampliarsi; cambia fisionomia. Gli spazi che si aprono sono davvero notevoli è il concetto implicito di area “vasta” non fa riferimento solo a un’area più estesa sui cui intervenire, ma su sugli ambiti, che si arricchiscono e si articolano. Pensiamo per esempio all’incentivazione e coordinamento delle Unioni Comunali di uno specifico territorio per costruire economie di scala su specifici servizi, alle politiche di mobilità integrata e/o coordinata per persone e merci, ai piani di sviluppo turistico, alla possibilità di create mercati integrati del lavoro, …. La cartina al tornasole della correttezza degli interventi intrapresi sarà innanzitutto (naturalmente non solo) il PIL metropolitano. I primi timidi segnali del mondo delle imprese incominciano a palesarsi. Pensiamo ad esempio al “Manifesto delle città metropolitane italiane” lanciato da Confindustria … Ma si può, si deve fare molto di più. Lo ribadiamo: la città e il suo ecosistema saranno il fulcro dell’economia del futuro.
In secondo luogo la vittoria di Matera a Capitale Europea della Cultura 2018.L’appassionante sfida a cui hanno concorso le 18 città italiane non ha semplicemente generato un vincitore ma ha attivato un processo di riflessione e rigenerazione urbana concretizzatosi in ben 18 piani di progetto che delineano (e aspirano a) la “Città Creativa 3.0”; di questi le 6 finaliste selezionate (Cagliari, Lecce, Matera, Perugia, Ravenna e Siena) hanno generato dei dossier con un livello di approfondimento e complessità progettuale ulteriore.
Tale patrimonio di cultura e innovazione ha colpito lo stesso MIBACT che all’indomani della designazione della vincitrice ha lanciato un Programma Italia 2019 (consolidato nella Legge 106/2014) e decretato come Capitali italiana della Cultura 2015 le cinque città finaliste, al fine di valorizzare i progetti presentati attraverso forme di partenariato attivo tra Stato, Regioni ed Enti locali individuando, per ciascuna delle azioni proposte, l’adeguata copertura finanziaria, anche attraverso il ricorso ai Fondi Europei 2014-20.
Nuove visioni, riqualificazione urbana, innovazione sociale, dialogo con le comunità locali sono alcuni dei caratteri identitari dei piani formulati che rappresentano un potenziale volano per la evoluzione delle città di nuova generazione, in grado di sfruttare l’ecosistema creativo come leva per lo sviluppo economico delle industrie culturali e dei territori ospitanti. Questo patrimonio progettuale va ripreso, integrato e soprattutto messo a terra.
Infine il mondo sfavillante delle start-up: un Paese che non si rigenera, che non crea nuove intraprese, che non ingaggia i giovani e non attinge alla loro voglia di fare e di cambiare è un Paese destinato a soccombere. Per questi motivi il tema delle start-up è centrale alla riflessione sullo sviluppo economico, sociale e culturale del nostro Paese, soprattutto di questi tempi. Sono, inoltre, soprattutto i giovani che riescono a cambiare le regole del gioco, a guardare la realtà con occhi diversi, a proiettare loro stessi, le loro passioni e i loro sogni nei progetti imprenditoriali.
Il tema è dunque strategico ma va affrontato in maniera completa e integrata. Non basta aprire qualche incubatore qua e la, fare delle complicate leggi sulle start-up innovative, e concentrarsi solo sulla nascita delle imprese. La vera sfida, oggi, e accelerare e irrobustire le giovani imprese. Si tratta dunque – ad esempio – di costruire una vera e propria “filiera della smart money: è più importante il primo fatturato che non il sussidio generalizzato alle prime fasi dell’operatività. Inoltre quando si finanzia il business plan con seed money, va previsto un percorso di finanziamento (secondo round, espansione….) quasi automatico se le milestone del business plan vengono rispettate. Oppure di creare le occasioni per la sperimentazione sul campo dove si verifica più l’accettazione da parte del futuro cliente (e quanto è disposto a pagare) che la tenuta tecnica del prodotto e servizio; dunque la verifica è meno sul funzionamento e più sulla utilità e usabilità. Oppure ancora di costruire un percorso formativo adatto alle start-up che utilizzi una metodologia educativa specifica, che usi pienamente le nuove tecnologie digitali per il supporto all’apprendimento e che abbia un portafoglio formativo pensato appositamente per le nuove imprese: ad esempio processi creativi e open innovation, business planning, finanza di progetto, design, marketing digitale, analisi dei comportamenti dei consumatori, retorica e comunicazione pubblica.
Anche in questo ambito – come per il tema precedente – solo il sistema camerale ha le risorse, le competenze e i collegamento con il tessuto produttivo del paese per poter giocare questo ruolo vitale.
Che Fare?
Le Camere di commercio devono riacquisire la loro centralità urbana contribuendo – con i Governi locali a costruire e supportar i Piani di sviluppo urbano raccordando le molte iniziative di sviluppo che spesso in maniera disorganica vengono lanciate sul territorio.
Progetti sulla larga banda, sperimentazione di Smart Grid, reti di incubatori e acceleratori, Faber Lab, sistemi di logistica elettrica per i centri storici, iniziative sugli open e big data e sull’Internet delle cose, piani massivi di educazione al digitale, iniziative di Precompetitive Public Procurement, sono esempi di progetti potenzialmente utili ma che rischiano di languire per isolamento.
In assenza di una cabina di regia, il rischio è la frammentazione progettuale e la creazione dell’”eterno prototipo”, quello che gli sviluppatori software hanno battezzato “perpetual beta” – un tipo di progetto ottimo per i titoli dei giornali, per il “convegnificio” e per i comunicati stampa ma totalmente inefficace.
È su questo fronte il mondo camerale deve giocare le sue carte e lo può fare – come notavamo tempo fa sempre su Formiche.Net – innanzitutto per la sua la natura ibrida – un po’ azienda un po’ Istituzione – che lo candida ad essere l’attore privilegiato per condurre questa tipologia di progetti di rigenerazione economica. Spesso, infatti, le innovazioni cadono per gli eccessivi schematismi, per la spregiudicatezza incontrollata del gioco delle parti o per le singole debolezze delle controparti (sia Istituzioni che mondo privato); per questi motivi un attore che rappresenti e sintetizzi al suo interno le due anime – pubblico e privato – è particolarmente indicato per giocare questo ruolo.
Inoltre la vera sfida delle città non è tanto (o per lo meno non solo) l’abbattimento della C02, la cablatura completa in larga banda, l’adozione di sistemi di mobilità elettrica, ma è soprattutto crescita economica e l’occupazione – soprattutto quella giovanile. I numeri di quest’ultima sono davvero sconfortanti e preoccupanti e solo il rilancio degli ecosistemi produttivi urbani potrà invertire questo drammatico trend.
Avere una città pulita, ipercablata e “smart” ma piena di disoccupati, con i negozi chiusi e gli anziani in balia di loro stessi non è certamente una città desiderabile. È forse il prodotto della nuova utopia tecnologica d’oltreoceano ma ha poco a che fare con il benessere come lo intendiamo noi.
È il rilancio dell’economia che vede nella dimensione urbana la sua componente più dinamica e promettente: la sua prossima sfida. E in questa sfida il mondo camerale deve giocare con pienezza e soprattutto proattività il suo ruolo.