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I conti in tasca a Putin

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Alberto Pasolini Zanelli apparso su Italia Oggi,il quotidiani diretto da Pierluigi Magnaschi.

Vladimir Putin ha dedicato gli ultimi giorni dell’anno a fare i conti. Proprio come tutte le altre persone che fanno il suo mestiere di statista, in ogni collocazione geografica e ideologica: si è infilato le mani in tasca. In entrambe. Le ha vuotate e si è messo a contare quanto c’era dentro.

Entrambe sono tascone di dimensioni ben superiori alla media ma, qui cominciano le sorprese, gli segnalano non uno ma due bilanci. Diversi, anzi opposti. Quelli del calendario 2014 e quelli della Storia, quindici volte più lunga.

Putin assunse il potere verso la mezzanotte del 31 dicembre 1999, allorché Boris Eltsin gli passò, con qualche anticipo, le insegne. Il Conto Lungo è, soprattutto a prima vista, decisamente positivo, degno di compiacimento.

Questi quindici anni hanno dato al popolo russo il reddito pro capite più elevato della sua storia, portandolo più o meno al livello di quello italiano (in termini di dollari da meno di 1.800 a 14.500). Hanno visto dimezzato il tasso di disoccupazione: dal 10,8 al 5,2%, metà di quello dell’Unione Europea, un po’ meno di quello degli Stati Uniti.

Naturalmente non è tutto oro quel che luccica. Il Miracolo Russo è soprattutto tale a causa del termine di paragone. Eltsin si era dimesso nel momento più tragico della recessione e dello sconquasso dell’Unione Sovietica, seguito al lungo declino che aveva obbligato Gorbaciov a imboccare la strada della Perestroika.

Anche così, quella tasca è davvero molto piena. Le riserve della Banca Centrale russa si sono dilatate fino ad apparentemente esplodere: da 13 trilioni di dollari a 418. Però Putin di tasche ne ha due e la seconda, quella degli ultimi dodici mesi, si è svuotata con la stessa velocità con cui la prima si gonfiava.

Il valore del rublo rispetto al dollaro è più che dimezzato, le riserve di valuta sono cadute in pochi mesi da 600 trilioni a poco più di 400, il prezzo del petrolio è crollato da 145 dollari il barile a 61. È l’altra faccia della medaglia.

Dal boom alla crisi. Unico dato non in contraddizione è quello della popolarità di Putin, che è anzi risalito nelle ultime settimane fino a toccare il nuovo record dell’85% di giudizi positivi, dopo essere sceso a poco più del 60% nel dicembre 2013.

Che cosa è successo nel frattempo? Diverse cose, alcune indipendenti da Putin e dalla sua gestione della Russia, come il tracollo planetario del prezzo del petrolio. Ma le altre, le più, sono made in Russia, conseguenze economiche di scelte politiche, radicate nel “putinismo”, nelle iniziative del Cremlino e negli effetti delle reazioni dell’America e dell’intero Occidente, che ammontano a un ritorno a misure da Guerra Fredda, di natura prevalentemente economica ma decise anche in risposta a iniziative apertamente militari: dalla riannessione alla Russia della Crimea e delle operazioni belliche in Ucraina.

Proprio mentre la popolarità di Putin toccava i vertici, l’Occidente stringeva i freni, dal boicottaggio bancario a misure per “strozzare” il turismo, per esempio sulle gradevoli spiagge della Crimea.

E in Ucraina le operazioni militari non sono state concluse come Putin vorrebbe o vorrebbe far credere, ma anzi hanno incoraggiato quel settore dell’opinione pubblica e politica di Kiev a riprendere quelle iniziative di ravvicinamento all’Unione europea e perfino alla Nato, con la recentissima eliminazione di una clausola che dovrebbe garantire la neutralità ucraina.

Le sanzioni hanno raggiunto dimensioni rispettabili, ma il loro impatto sull’economia russa è potentemente moltiplicato dalla coincidenza con il crollo dei prezzi energetici a cominciare dal petrolio. La forza della Russia, la causa del Cremlino è stata in questi anni quasi interamente quella.

Ora Putin è costretto a denunciare le iniziative ostili dell’Occidente e implicitamente ad ammettere che si è concluso un periodo, quasi un’era, con pochi precedenti nella storia: per la prima volta in cento anni la Russia non si è sentita per quasi quindici “minacciata” dall’esterno.

Putin ha dovuto insomma rinunciare a rilanciare la bandiera degli exploit della Grande Caterina e a ricordare che i “vicini” possono fare più danni o almeno creare più difficoltà di quanto possano essere forzati a fare concessioni.

Siamo alla Guerra Fredda bis? Sarebbe esagerato. Neppure l’Occidente può dimenticare che nei periodi di tensioni i danni sono reciproci, anche se non sempre nella stessa misura. Gli anni di Putin non sono stati tutti gradevoli né per gli Stati Uniti né per l’Europa e non è affatto garantito che il ricorso alle sanzioni risolva tutti i problemi.

È anche oggi più probabile che le grandi tentazioni siano anche grandi illusioni non solo per Putin e per il contenuto delle sue tasche.


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