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Vi racconto i tre giorni che hanno sconvolto Parigi

Mercoledì 7 gennaio

Un mercoledì come un altro quello della settimana scorsa. La mattina la trascorro con mio figlio di 2 anni e mezzo. Lo faccio uscire col suo monopattino. Abitiamo vicino Les Invalides, quartiere di ambasciate e ministeri.
Rientro a casa, gli dò il pranzo e lo metto a fare la ninna del pomeriggio. È solo allora che accendo la tv per seguire il telegiornale delle 13 e resto un po’ interdetta dalle immagini che sfilano sullo schermo nonché dai titoli che leggo a grandi lettere: “Attaque à Charlie Hebdo”.

Il giornale non l’ho mai comprato, ma lo conosco per le caricature “irriverenti” e le cause giudiziarie che ne sono seguite. Apprendo solo con il passare dei minuti e delle ore che si è trattato di un vero e proprio attentato, mirato per zittire coloro che si permettono di scrivere e disegnare riguardo qualsiasi argomento.
Edizioni speciali, dibattiti e trasmissioni specializzate vengono diffusi su tutti i canali francesi e inizia a farsi sempre più chiaro il bilancio delle vittime e dei feriti in lotta fra la vita e la morte.

Una “esecuzione”: questa è la parola che risuona di più sui media. Per me è assurdo pensare che in pieno centro a Parigi, alle 11.30 di un mercoledì mattina qualunque, due individui armati fino ai denti – e neanche così “professionali”, viste le immagini – potessero riuscire ad agire con estrema facilità.
Credo, tuttavia, che gli interventi delle forze dell’ordine successivi a quel mercoledì abbiano confortato il nostro animo. Ci siamo sentiti protetti, malgrado tutto!

Giovedì 8 gennaio

Accompagno mio figlio dalla baby-sitter e sono accolta da due poliziotti armati e con giubbetto antiproiettile. Quanto avviene quella mattina presto a Montrouge, nella periferia di Parigi, lo riconduco a una sorta di “eco” di quanto avvenuto mercoledì.

Un atto commesso da un “folle” che ha voluto esprimere il suo odio verso le forze dell’ordine, finalizzato a “manifestare solidarietà” ai criminali del giorno prima. Non penso a un collegamento fra i due episodi. Forse credendo ingenuamente che, avendo “decapitato” la testata giornalistica già da tempo nella “black list” dei terroristi, non vi sarebbero stati altri crimini del genere.

A tal punto si parla di “attacco mirato” ai giornalisti per ciò che “quei” vignettisti rappresentavano, che inconsapevolmente si è instillata in me una forma di auto-protezione. Per cui ritengo che non fosse stato pianificato null’altro.
Un’ingenuità perdurata fino a quando il pubblico ministero impegnato nelle indagini confermerà – nel corso di una conferenza stampa tenuta venerdì sera alle 22 – che l’assassino dell’agente di polizia municipale aveva un gilet antiproiettile, un kalashnikov e un passamontagna con il dna di colui che “agirà” nuovamente alla Porte de Vincennes, altro quartiere residenziale di Parigi.

Venerdì 9 gennaio

Mi decido, malgrado gli avvenimenti recenti, a prendere la metro. Un’udienza in Tribunale alle 9.30 mi costringe a non avere altra scelta, per evitare ritardi. La linea 1, che prendo per arrivare in Tribunale, collega Parigi nelle due estremità: Défense e Château de Vincennes.
C’è poca gente per essere un venerdì mattina lavorativo. Anche all’interno del Palazzo di Giustizia i miei tacchi risuonano più forte del solito: semi-deserte le sale, i corridoi, le scrivanie. Persino la sala degli avvocati ospita solo due colleghi che parlano fitto fitto tra loro.

Dopo la mia udienza, sbrigo alcune formalità all’interno del Tribunale, mangio un boccone nei pressi di Châtelet e decido nuovamente di prendere la metro per recarmi all’appuntamento del pomeriggio, nel 15° arrondissement.

Sulla linea 1, che prendo in direzione di Château de Vincennes, un annuncio si ripete a ogni fermata: “Per ordine della polizia e del Ministero dell’Interno, le stazioni Mandé e Porte de Vincennes non sono raggiunte da questo servizio”. Sono trascorse da poco le 13.30. Devo scendere alla fermata “Concorde” per cambiare linea.
Non mi viene in mente nulla ascoltando l’annuncio. Penso solo ai due fratelli ricercati dalle forze dell’ordine. Forse la polizia sta operando nella zona di Vincennes. Arrivo al mio appuntamento e finisco dopo le 17.

Quando esco di nuovo in strada i miei due cellulari, italiano e francese, sono intasati di messaggi e chiamate, compresi quelli di mia mamma. Se mia mamma mi scrive, vuol dire che è successo qualcosa di grave. Ma è solo grazie a messaggi WhatsApp di un’amica che vive a New York ed è incollata allo schermo che apprendo quanto sta accadendo dall’altra parte della mia adorata Parigi.

A quel punto ricostruisco quei tre giorni di follia, e mi chiedo dove e come potrei essere al sicuro per recuperare mio figlio dalla baby-sitter. Quali autobus? Niente metro, ovviamente. E se andassi a piedi, invece? Non capisco più nulla. Guardo i volti dei passanti e allora sì, mi rendo conto che siamo tutti con la stessa “boule au ventre”: paura, angoscia come dicono qui.
Mi calmo, chiedendomi se il tragitto verso casa preveda un passaggio nella zona del terzo assalto, in corso in un supermercato ebraico di cibo Kosher. Alla fine trovo l’autobus e recupero mio figlio, dopo aver avuto conferma che i tre attori di questa tragedia tutta parigina sono stati uccisi.

Domenica 11 gennaio

Non ho potuto essere presente alla grande manifestazione di solidarietà verso le vittime degli attentati e per i “valori repubblicani” organizzata a Place de la République. Ma sono presente con il cuore, gli occhi e la mente. Ho seguito alla televisione il corteo fin dall’inizio, dall’arrivo dei capi di Stato fino alla sera. Quando ancora affluiscono persone ad accendere candele, a fare una preghiera, a offrire il loro contributo con un semplice silenzio pieno di umanità.

Umanità che, lo devo riconoscere, sembra oggi assumere una maggiore importanza per una città troppo spesso presa dall’individualismo e dalla scarsa attenzione verso il prossimo.
Personalmente, ciò che più emoziona ora qui a Parigi è la forte solidarietà, la forte unità che si respira. E non solo a Place de la République, ma anche nelle strade: con una stretta di mano, uno sguardo, un sorriso, un bonjour.
Incrociare un poliziotto è oramai all’ordine del giorno. Vi è gratitudine per ciò che le forze di sicurezza hanno fatto. Ogni sguardo e un semplice “passez une bonne journée” – frase che oggi presenta un’importanza ben diversa da prima – scalda il cuore. Non sono parole pronunciate automaticamente. Partono proprio dall’anima, hanno peso e senso.

È come se tutta quella violenza, scatenata in tre giorni neri per una città tanto bella, avesse ricordato a ognuno di noi ciò che veramente conta per una persona: sentirsi tale, esprimere la propria umanità e toccare con mano quella altrui.

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