Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Pierluigi Magnaschi, apparso su Italia Oggi.
Mentre il mondo sta cambiando i suoi connotati con la velocità della luce, il mondo politico e mediatico italiano, incapace di capire i suoi interessi, ma legato alle solite e vecchie liturgie, si è bloccato a discutere su un ferro rotto come l’articolo 18, espressione di un mondo che, da almeno vent’anni, non esiste più neanche in Italia. Basti confrontare lo spazio che i tg e i talk show dedicano a questo frusto tema vetero-sindacale e quanto essi ne riservano alla crisi ucraina. Quest’ultima infatti non è una cosa che interessa altri ma che colpisce direttamente anche i nostri interessi economici e le nostre prospettive di sviluppo se non, Dio non voglia, la nostra sopravvivenza futura. L’ex ministro degli esteri degli anni d’oro Usa, Henry Kissinger, ha detto, nei giorni scorsi, alla tv russa Aktuelle Zei che “se la Russia e l’Occidente non rinunceranno a considerare l’Ucraina come loro avamposto, non si potrà evitare un nuova guerra fredda”.
In poche parole, Kissinger ha detto tutto. Si rischia la guerra fredda. Con un paese, la Russia, che è imbottito di ogive atomiche e di missili o sommergibili capaci di farle arrivare ovunque nel mondo. Per disinnescare questa minaccia, l’Occidente non può limitarsi a digrignare i denti ma deve formulare una sua proposta. Ora, dell’Occidente, fa parte sicuramente anche l’Italia. A parte le trovate pressoché folcloristiche di Salvini e di Grillo, che si consegnerebbero ai voleri di Mosca in cambio di qualche concessione economica, che cosa hanno da dire, su questo scottante argomento, i partiti italiani che contano, ammesso che ci siano ancora dei partiti italiani che contano? Niente. Essi infatti sono impegnati su altre quisquilie come abolire il Senato in modo tale da tenerlo in vita, o chiudere le Province pagando per far niente i 20 mila dipendenti in esubero, non riuscendo nemmeno a trasferirli in altri settori della pubblica amministrazione dove si dice che ne manchino.
La crisi ucraina è nata sicuramente a causa di alcune forzature statunitensi, incautamente appoggiate dalla Ue (dove dibattiti politici su questi temi non se ne fanno mai; e, se si fanno, sono tenuti segreti). Queste forzature prevedevano l’ammissione dell’Ucraina alla Ue e quindi, implicitamente (anche se successivamente), alla Nato. Queste due scelte sconvolgevano l’intesa non scritta, ma finora accettata, che l’Ucraina doveva rimanere una sorta di stato-cuscinetto fra le due superpotenze: l’Occidente da una parte e la Russia dall’altra. Portare l’Ucraina nella Nato era, oggettivamente, una diretta sfida militare alla Russia, non diversa dai missili che Kruscev voleva installare a Cuba (a 145 km dalle coste della Florida, Usa) e che, per impedirne l’arrivo e l’installazione, John Kennedy era disposto a dichiarare guerra all’Urss, affondando le navi sovietiche che si trovavano in mezzo all’Oceano Atlantico e che infatti fecero marcia indietro.
Ecco perché dopo la sollevazione (anche militare) della popolazione ucraina di estrazione russa guidata da «istruttori» russi che hanno fornito non solo mitragliatori ma anche missili e carri armati, e persino dopo l’incorporazione da parte della Russia della Crimea, la premier tedesca, Angela Merkel, non ha soffiato sul fuoco. Da ex cittadina della Germania comunista, e da perfetta conoscitrice della lingua russa, aveva capito che l’Orso moscovita andava lisciato per il senso del pelo, tranquillizzandolo e, se del caso, risarcendolo. In altre parole, alla pericolosissima politica dello scontro, bisognava far seguire una politica di colloqui e di trattative. Su questa politica erano d’accordo i massimi partiti tedeschi. Tant’è che a Washington, a Foggy Bottom, il crocevia della diplomazia a stelle e strisce, la Merkel veniva descritta come una pericolosa colomba al servizio di Putin. Come mai allora, la Merkel, da colomba qual era, si è trasformata pubblicamente in falco, in occasione del G20 in Australia?
L’improvviso e inspiegato dietrofront della Merkel sulla politica estera russa in Europa è dovuto al fatto che essa si è accorta che Putin, con la scusa degli sgarbi subiti dall’Occidente sulla questione ucraina, e spinto da un’ondata di popolarità nazionalistica improvvisamente esplosa nel suo paese, aveva, nel frattempo, alzato la posta. Non gli bastava più essersi pappato la Crimea, e non era interessato, se non a parole, a un’ampia autonomia accordabile alle aree orientali dell’Ucraina, ma voleva ridiscutere anche lo statuto dei paesi baltici, riaprire il dossier georgiano (già risolto, in passato, sia pure in parte, dai russi, con la forza). Insomma, l’appetito di Putin era, nel frattempo, cresciuto a dismisura. Non si trattava quindi solo di tranquillizzare Mosca da minacce militari aggiuntive (come l’adesione dell’Ucraina alla Nato) ma di contenere anche gli appetiti espansionistici di Putin, ponendo dei risoluti paletti alle sue ambizioni, pur riconoscendone le preoccupazioni e assicurandogli le ragionevoli garanzie che Mosca ha diritto di ottenere.
Il cambio di atteggiamento della Merkel non è stato accettato unanimamente nemmeno in Germania dove tutto il partito socialista e una parte del partito del premier sono, si può dire, filo-russi. Cioè sanno che la Russia è in grado di dare tutto ciò che la Germania ha bisogno (fonti energetiche) e la Russia ha bisogno dalla Germania tutto ciò che, in termini di tecnologia e di finanza, la Germania può fornirle a livello di eccellenza. Inoltre Berlino sa che, se la Russia non si ripiega nel suo nazionalismo aggressivo e immusonito, questo paese (che è di gran lunga il più vasto del mondo) è destinato a integrarsi sempre più con la Germania e con l’Europa. Ipotesi, questa, che non piace agli Stati Uniti che vorrebbero invece tenere l’Europa in uno stato di tiepido vassallaggio e che temono che, con un asse Berlino-Mosca (per non parlare di un asse Bruxelles-Mosca), verrebbe meno la loro presa su una comunità (quella europea) che ha sempre mezzo miliardo di abitanti e che se si integrasse con la Russia verrebbe o costituire il terzo grande attore mondiale oltre agli Usa e alla Cina.
Come si vede, il problema è molto delicato, intricato e complesso. E la Merkel, che è una statista, lo sta affrontando con prudenza e determinazione. Alla ricerca di una soluzione equa e che non si limiti alla scontro a danno di tutti. I nostri politici, che non sono statisti, preferiscono invece scannarsi (o far finta di scannarsi) sull’articolo 18.