Walmart alzerà lo stipendio minimo a 9 dollari a 500.000 dei suoi lavoratori. È questa la notizia per chiunque si interessi di mercato del lavoro e voglia farsi un’idea della direzione che stia prendendo, non solo negli Stati Uniti.
Mentre in Italia si discute di licenziamenti e di eliminare i contratti non-subordinati, oltreoceano il più grande datore di lavoro americano, con 1,3 milioni di dipendenti, aumenterà il salario minimo di 1,75 dollari, e di 2,75 nel 2016, arrivando a 10 dollari l’ora. Il tutto generando un interessante staffetta tra attori pubblici e privati nella partita delle politiche del lavoro.
Infatti, quasi un anno dopo la bocciatura da parte del Senato americano della proposta di Obama di innalzare il salario minimo a 10,10 dollari, è proprio Walmart a fare paradossalmente un passo storico in questa direzione.
Non solo, nel video su Youtube che descrive le novità in materia di risorse umane, il CEO del gruppo Doug McMillon annuncia vi saranno rivoluzioni due fronti: formazione e flessibilità oraria. Verrà infatti avviato un programma formativo volto ad aumentare le competenze dei lavoratori che, qualora completato con successo, porterà ad un aumento del salario; sul fronte della flessibilità oraria Walmart prevede di ampliare la possibilità di variazione delle schedule dei dipendenti per consentire una migliore conciliazione tra vita e lavoro.
Fin qui i fatti, di per sé innovativi, ma più interessanti sono le implicazioni che quanto annunciato ieri potrà avere. In primo luogo l’effetto a catena che questa decisione può generare: infatti come un tempo la General Motors oggi è Walmart il benchmark al quale si allineano i salari delle grandi compagnie americane. Le conseguenze hanno la seria possibilità di incidere su uno dei dibattiti che più anima la politica e l’accademia americana, quello sulla disuguaglianza.
Nessuno pensa che questo aumento di salario possa risolvere tutti i problemi (i lavoratori di Walmart chiedono da tempo un innalzamento a 15 dollari l’ora) ma è indicativo di un trend che le grandi imprese possono intraprendere, ossia la ricaduta positiva sui salari degli utili in crescita. Sarà interessante valutare le conseguenze che tale scelta avrà sui rapporti divergenti, in termini quantitativi, tra capitale e lavoro denunciati da economisti come Picketty e Stiglitz.
A ciò si aggiunge che i lavoratori di Walmart sono ormai tra i più celebri esempi di working poor, di quei dipendenti cioè, che non beneficiano in termini economici della grande trasformazione del lavoro contemporaneo, e sono anzi vittime della proletarizzazione che ha colpito parte dell’economia dei servizi. Punto di osservazione principale nei prossimi mesi, per cogliere quali conseguenze avrà questo aumento salariale, saranno proprio queste categoria quali i lavoratori dei fast-food, degli hotel, le domestiche, i call center ecc.
Ulteriore fattore interessante è l’insistenza del gruppo, quanto meno nelle intenzioni, sulla formazione e sulla flessibilità oraria. Questo risponde ad alcune delle dinamiche del cambiamento in atto nel mercato del lavoro: centralità delle competenze individuali e scardinamento delle logiche di subordinazione spazio-temporale. Se pur in forma lieve queste novità sono, infatti, indice di una maggior concentrazione sullo sviluppo delle skills del lavoratore, sulle quali l’impresa ha interesse ad investire sviluppando processi di mobilità interna, anche in una logica contrattuale come quella americana caratterizzata da pochissima job security. Allo stesso modo l’aumento della flessibilità oraria significa cogliere che il rapporto lavoratore-orario di lavoro è sempre meno concepito all’interno di una logica di dipendenza, ma più in una logica di produttività e responsabilità.
In ultimo sarà importante e indicativo osservare le conseguenze di questi fatti sulle relazioni industriali statunitensi. Walmart infatti è celebre per essere una realtà fortemente avversa alla rappresentanza sindacale, con una politica manageriale che tenta in ogni modo di evitare rappresentanze aziendali, anche attraverso metodi discutibili e al limite della legislazione americana. Non si può quindi affermare con sicurezza che queste novità siano dovute all’azione e alla lotta sindacale.
Negli scorsi mesi hanno avuto risonanza le proteste organizzate dall’associazione di lavoratori OurWalmart, non riconosciuta come sindacato, ma appoggiata esternamente dall’United Food Commercial Workers (UFCW) e stanno già moltiplicandosi le rivendicazioni degli aumenti salariali da parte di queste associazioni.
Se verrà o meno mostrato o riconosciuto un ruolo centrale di OurWalmart, il che non è assolutamente scontato, il sindacato ufficiale americano avrà comunque molto su cui riflettere. Infatti si tratterebbe di una vittoria di lavoratori non sindacalizzati, senza una ufficiale rappresentanza all’interno dell’impresa, che quindi hanno giocato la partita al di fuori delle regole classiche della contrattazione statunitense. Questo, insieme alla nascita di nuove forme di rappresentanza al di fuori del sindacato (per esempio l’esperienza dei worker center) obbliga tutto il movimento dei lavoratori americano a grandi riflessioni.
Se, al contrario, si mostrerà che l’aumento salariale è conseguenza di una decisione unilaterale di Walmart questo, come detto, implicherà una riflessione da parte delle grandi imprese sulle politiche della ridistribuzione degli utili in salari e, inoltre, sulle nuove modalità organizzative che il futuro del lavoro suggerisce.
Questi sono solo alcuni dei motivi per cui questa notizia segnerà non solo la settimana, ma molto probabilmente i prossimi mesi nelle dinamiche del mercato del lavoro americano ed internazionale. Sono spunti che dovrebbero interessare anche il legislatore italiano, impegnato in questi giorni in un tentativo di riforma del mercato del lavoro che, con un occhio oltreoceano, appare concentrato su aspetti secondari e poco innovativi.