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Com’è cambiato (in peggio) il mondo del credito

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Le quindici banche italiane considerate di rilievo sistemico dalla Bce hanno appena pubblicato i dati relativi al bilancio del 2014: ne emergono rettifiche ed accantonamenti su impieghi per ben 26,7 miliardi di euro. E’ un ammontare ragguagliabile a due punti percentuali del Pil, una manovra di finanza pubblica più che sostanziosa, più del doppio rispetto ai 12 miliardi di aggiustamenti evidenziati dalla Asset Quality Rewiew (AQR) svolta dalla Bce sui dati di fine 2013. Già in quella occasione le nostre banche primeggiarono negativamente, avendo subito una correzione pari al 24,7% del complesso degli aggiustamenti pari a 47,5 miliardi: il credito veniva penalizzato, non gli impieghi finanziari.

Sulla base dei dati dell’Abi, a novembre scorso le sofferenze lorde hanno superato i 181 miliardi di euro, con un rapporto sugli impieghi del 9,5% rispetto al 2,8% di fine 2007. Questo livello raggiunge il 16% per i piccoli operatori economici (7,1% nel 2007), il 15,9% per le imprese (3,6% nel 2007) ed il 6,9% per le famiglie consumatrici (2,9% nel 2007). Anche le sofferenze nette a novembre hanno registrato un aumento, passando da 83 miliardi di ottobre agli 84,8 miliardi. Il rapporto tra sofferenze nette ed impieghi totali è stato del 4,67%, mentre era appena dello 0,86%, prima dell’inizio della crisi.

Il problema del credito agli investimenti non dipende ormai né dalla liquidità, né dal suo costo, visto che la Bce da anni ne offre in abbondanza per far ripartire l’economia: prima con le Ltro decise tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, che però almeno in Italia sono state utilizzate prevalentemente per l’acquisto di titoli del debito pubblico; poi con le T-Ltro varate lo scorso anno, e più di recente con il programma di acquisto di Abs e di Covered bond, esteso a fine gennaio con il Quantitative Easing da 60 miliardi di euro mensili.

Il sistema bancario è chiamato invece ad affrontare una serie di fattori di criticità di cui non si discute affatto, e non si tratta né delle regole di governance volte ad assicurare trasparenza nell’assunzione dei rischi, né delle politiche di remunerazione dei vertici, né dei più elevati coefficienti di capitale (Cet1) necessari ad assicurare la solvibilità dei singoli istituti. Pur a fronte della liquidità abbondante ed a basso costo fornita dalla Bce, ci sono da fronteggiare avversità macroeconomiche specifiche: non solo ci sono da svalutare le garanzie immobiliari, ma occorre aggiungere anche il costo della illiquidità ormai strutturale di questo mercato, per cui servono accantonamenti anche sui crediti in bonis.

Sono questioni lontanissime dal dibattito politico: il Fisco viene pensato solo come uno strumento che serve a far cassa, senza valutare minimamente le conseguenze che derivano dalle decisione tributarie. L’imposizione patrimoniale sugli immobili, ad esempio, che tra prime e seconde case non arriva a 30 miliardi di euro di gettito annuale, ha determinato una serie di danni e di costi sistemici ancora non esauritisi nei loro effetti: si è determinata la chiusura di moltissime imprese edili, con la conseguente disoccupazione e l’azzeramento del gettito tributario derivante dalle costruzioni e dalle transazioni sul mercato; si è inciso negativamente sul valore del patrimonio accumulato dalle famiglie e sugli stessi cespiti delle imprese; si è modificata profondamente la valutazione sull’impiego del risparmio; sono collassati gli impieghi in mutui menre sono esplose le sofferenze nei confronti di costruttori ed immobiliaristi.

Ora emergono le conseguenze delle svalutazioni immobiliari sulla dimensione e l’effettività delle garanzie prese dalle banche a fronte del credito già erogato e sul valore di quelle effettivamente utilizzabili da parte di coloro che richiedono nuovi prestiti. In Italia si fa poco credito anche perché ci sono poche garanzie diverse da quelle immobiliari e queste ultime valgono poco se non nulla: i banchieri sempre più spesso non ne vogliono neppure sentire parlare. Insomma, con l’Imu e la Tasi abbiamo fatto un vero disastro.

Il fatto poi che le rettifiche sui bilanci bancari del 2014 siano più che doppie rispetto al Total Aqr Adjustment indicato dalla Bce sui dati a fine 2013 dipende certamente dal fatto che le nuove regole prudenziali sono state applicate contabilmente alle singole partite di credito e non solo in via statistica. Potrebbero essere anche indice di una sorta di debolezza strutturale, di quella sindrome che le banche giapponesi hanno vissuto dopo il crollo nel 1990 del Nikkei e l’esplosione della bolla immobiliare: non sono mai uscite dal gorgo della asset deflation. Questo fenomeno potrebbe ripetersi in Italia, soprattutto se il principale driver dei valori patrrimoniali, rappresentato dal settore immobiliare, non riprende vigore: tutte le operazioni di pulizia dei bilanci rischiano di essere inutili.

Lo stesso vale per l’idea di trasformare la banca in una agenzia immobiliare al fine di sistemare i mutui delle famiglie in ritardo con i pagamenti così come le costruzioni finanziate ma rimaste invendute: si vende prezzi irrisori, evitando le vendite giudiziarie che vanno regolarmente deserte, ma la banca deve poi svalutare l’intero “magazzino” delle garanzie, anche quelle riferite ai mutuatari in regola con i pagamenti. Mette una pezza sul conto economico per creare una voragine sul piano patrimoniale.

Servono soluzioni sistemiche, che riportino gli asset ai livelli pre-crisi: o vanno fuori del bilancio della banca, oppure la recessione, la deflazione degli asset e la loro illiquidità sul mercato, porta a continue svalutazioni, fino al fallimento. L’esperienza delle banche giapponesi, che si sono trovate per anni con asset a valori di mercato molto inferiori ai prezzi di libro, è stata ben presente alla Fed americana, che infatti con il Qe3 ha comprato Abs immobiliari per decine di milioni di dollari al mese, al fine di far risalire il valore delle case.

Non solo in Italia gli immobili sono stati bastonati fiscalmente, ma l’intera politica economica che ha mirato al riequilibrio dei conti pubblici e della bilancia dei pagamenti attraverso la deflazione dei salari, la flessibilità in uscita dal mercato del lavoro e le liberalizzazioni rende più difficile il recupero ai livelli pre-crisi del valore degli asset che le banche hanno in garanzia. Non solo le case, ma anche le aziende e le attività professionali liberalizzate vedono il valore di avviamento a livelli infimi: l’impairment test porta ad accusare perdite non più recuperabili, vista la tendenziale irreversibilità delle minusvalenze. Per le banche, questo è il secondo disastro.

Se l’andamento dell’indice di Wall Street rappresenta per i risparmiatori americani il valore del loro risparmio, in Italia accade lo stesso per il prezzo di mercato degli immobili, l’avviamento dell’impresa e dell’attività professionale. Non parliamo della inutilità di tre anni di stipendio da lavoratore dipendente: affidamento zero. La liquidità non basta: senza garanzie adeguate, perché altrimenti le banche non prestano denaro. Con le case svalutate, il lavoro dipendente instabile, le imprese che perdono l’avviamento e le attività professionali senza futuro, tutto il sistema del credito commerciale è in crisi.

C’era una volta la banca di deposito, basata sulla mobilitazione del risparmio popolare da destinare esclusivamente agli investimenti produttivi, con la garanzia offerta dalla vigilanza e dalla riserva obbligatoria sui depositi. Dopo averle trasformate tutte in banche universali, quanto più erogano credito tanto più vengono vessate: il mercato finanziario vuole carta, ha fame solo di bond e di azioni, il cui valore va su e giù, un giorno dopo l’altro. Senza patem d’animo per i vigilanti: la teoria della riduzione del rischio si trova solo nei libri del secolo scorso.

C’era una volta il risparmiatore: ora è una figura desueta, un seccante ed appiccicoso rimasuglio del passato. Va rimosso alla svelta: ora ci sono i profili di rischio per gli investitori, modelli pro-forma come i rating delle imprese.

C’era una volta il credito: ora lo si concede solo a chi ha da offrire altrettanto in garanzia. Non è una favola: c’era una volta ed or non c’è più.



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