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Il giro di boa della riforma della PA: un bilancio amaro

Dopo un anno di Governo Renzi, siamo al giro di boa per la riforma della Pubblica Amministrazione, più volte definita la madre di tutte le riforme. E con ragione: a dispetto dell’insofferenza di tanti per la burocrazia, la macchina amministrativa regge l’intelaiatura dello Stato e ne sorregge le politiche. Dove non c’è burocrazia, ovvero quell’insieme di regole e uffici che operano in modo imparziale nel solco delle indicazioni della politica nel quadro della corretta applicazione della legge, non c’è uno Stato. Questa macchina è da tempo ingolfata, lo sappiamo, e serve una revisione profonda. La mia impressione, tuttavia, è che dopo un anno di discussioni e di proclami, si debba constatare con amarezza che non abbiamo fatto che assistere al più classico dei giochi di ruolo, quello del poliziotto buono e del poliziotto cattivo.

Quest’ultimo, impersonato dal Presidente del Consiglio, ha abbordato il tema con dichiarazioni al calor bianco, concentrando la potenza di fuoco sulla dirigenza pubblica, da sempre frammentata e con la testa spesso rivolta al passato, incapace di parlare al Paese: rematori al contrario, mandarini, paperoni, padroni di “un Paese arrugginito, un Paese impantanato, incatenato da una burocrazia asfissiante”. Ergo, un Paese civile è quello che “afferma la contestualità tra l’espressione popolare del Governo del Paese e la struttura dirigente della macchina pubblica”. In altri termini, aveva sostenuto il Premier alle Camere, è “arrivato il momento di dire con forza che una politica forte è quella che affida dei tempi certi anche al ruolo dei dirigenti e che non può esistere, fermi e salvi i diritti acquisiti, la possibilità di un dirigente che rimane a tempo indeterminato e che fa il bello e il cattivo tempo”. Chiaro, limpido, lineare: politica buona, burocrate cattivo. Si chiama spolis system: il dirigente se lo sceglie il politico, mera conferma, peraltro, di quanto affermato dall’allora candidato alla Segreteria del PD in una seguitissima trasmissione televisiva. Alla Ministra Madia, invece, il ruolo del poliziotto buono, con affermazioni e dichiarazioni sul tema della riforma che sono state da sempre improntate alla moderazione e al buon senso, a partire dalla valorizzazione del reclutamento a livello nazionale dei dirigenti tramite Scuola Nazionale dell’Amministrazione, sino alla ripetuta intenzione di attuare una riforma che tutelasse, allo stesso tempo, chi lavora nella PA e chi dalla PA ha il diritto di ottenere servizi rapidi, efficaci, concreti.

Eppure, a leggere gli emendamenti del relatore di maggioranza (PD) al disegno di legge delega all’esame del Senato, quello che appare evidente è il riemergere, in tutta la loro forza, delle idee originarie del Presidente del Consiglio: una dirigenza precarizzata, selezionata e formata con un sistema di accreditamento a privati, senza vero diritto all’incarico e, in assenza di una seria riforma della valutazione, di fatto sotto schiaffo della politica. Si tratta di una polpetta avvelenata servita fredda, forte dei decenni in cui le tante inefficienze della PA sono state mutualmente accettate e condivise da burocrazie e politica, stretti in un abbraccio mortale che la crisi economica e la legittima insofferenza dei cittadini hanno fatto esplodere. La polpetta mette assieme cose molto buone e cose molto cattive, contando strategicamente sul fatto che è molto complicato fare distinzioni per i cittadini ed esponendo chiunque voglia avanzare critiche ragionate all’accusa dell’impantanatore della Repubblica. In questo, la riforma è sorretta in modo molto efficace da un gruppo di preparati ed agguerriti accademici bocconiani, che suggeriscono, supportano, forniscono dati, propongono soluzioni. Un’azione legittima, naturalmente, e con non poche idee che meritano di essere applicate, ma che spesso mostra come chi non abbia mai davvero masticato di amministrazione possa prendere cantonate: individuare, ad esempio, nel male della PA i soliti mandarini, mescolando i “gabinettisti” prestati all’amministrazione (provenienti dalle magistrature e da sempre corteggiati dalla politica) e la dirigenza di ruolo, vincitrice di concorso, significa semplicemente non comprendere il funzionamento di una organizzazione che è fatta di tanti pezzi che fanno cose diverse e che conta più di tre milioni di lavoratori.

E se la proposta che si ripete come un mantra, e che di fatto sembra fatta propria dalle proposte emendative al testo del disegno di legge, è quella di arrivare per la dirigenza ad una lista di idonei da cui la politica possa pescare donne e uomini per metterli a piacimento nei posti chiave, significa che per certuni il principio costituzionale della imparzialità dell’amministrazione ha un’importanza prossima allo zero. La creazione di un mercato pubblico della dirigenza che serva a mettere la persona giusta al posto giusto è altra cosa. Le competenze vanno coltivate, il merito promosso, il demerito sanzionato severamente: l’associazione dei dirigenti che provengono dalla Scuola Nazionale dell’Amministrazione, fra i tanti, lo ha detto chiaramente ai senatori della Repubblica. Non si migliora il sistema con la distruzione di un corpo dello Stato. Alla politica va offerta da parte della dirigenza competenza e leale collaborazione, forte della propria autonomia. Una truppa di yes men potrà essere utile nel breve periodo per qualcuno, ma dannosa domani per il Paese.

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