Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori e dell’autore, pubblichiamo l’analisi del condirettore di Italia Oggi, Marino Longoni, uscita sul settimanale Italia Oggi-Sette diretto da Pierluigi Magnaschi
Non è l’abolizione (o semi abolizione) dell’articolo 18 la spina dorsale del Jobs act, ma la cancellazione di tutte le forme di lavoro grigio e la loro trasformazione in contratti di lavoro a tempo indeterminato (a tutele crescenti).
Matteo Renzi ha detto che nel 2015 200 mila lavoratori passeranno quest’anno da un contratto di finta co.co.co. o co.co.pro. ad un contratto di lavoro subordinato: oggi non hanno alcuna garanzia di stabilità del posto di lavoro, godono di ridotte tutele pensionistiche (pagate a caro prezzo) e sono privi di ammortizzatori sociali.
Domani avranno qualche certezza in più sul loro futuro. In cambio le imprese vedono cadere vincoli, ormai fuori da ogni logica produttiva, sui licenziamenti. Questo dovrebbe eliminare molte remore a dare il via a nuove assunzioni (agevolate dalla legge di stabilità anche con sgravi contributivi per i primi tre anni).
Politicamente, a uscirne con le ossa rotte, è la Cgil che, sull’articolo 18, ha innalzato antistoriche barricate e ora si trova sempre più tagliata fuori dal mondo dei lavoratori più giovani. Anzi è stato proprio questo atteggiamento – la difesa senza se e senza ma di alcune garanzie non più sostenibili – che ha portato alla creazione di un mondo sempre più vasto, oltre 700 mila lavoratori, di fatto appartenenti ad una casta inferiore rispetto a quella dei lavori dipendenti.
Uno dei decreti legislativi approvati venerdì scorso dal consiglio dei ministri (in prima lettura) prevede invece una sanatoria per tutte le collaborazioni convertite in contratti di lavoro subordinato entro il primo gennaio 2016 (ci vorrà ancora qualche mese per far diventare legge questa parte del jobs act). Inoltre non si potranno più sottoscrivere contratti di lavoro a progetto. E alle finte collaborazioni si applicherà la stessa disciplina del lavoro dipendente. Le collaborazioni non saranno abolite, ma il tentativo, perseguito in modo serio, è quello di eliminare quelle che mascherano un rapporto di lavoro dipendente: dovrebbero restare solo quelle legate a prestazioni intellettuali.
Dal primo marzo, poi (dovrebbero esserci i tempi tecnici per la firma del presidente della repubblica e la pubblicazione in Gazzetta ufficiale di un’altro dei decreti approvati dal consiglio dei ministri di venerdì, questa volta in seconda lettura) entrerà in vigore il contratto a tutele crescenti che, riducendo le tutele per i neo assunti, dovrebbero però incentivare le imprese ad assumere. Invece di una tutela intangibile di un diritto astratto, una tutela ridotta, ma di un posto di lavoro concreto.
Si tratta in realtà di una riforma chiesta da anni all’Italia ma che finora non si era riusciti a realizzare per la fortissima opposizione della Cgil e dei suoi alleati all’interno e all’esterno del pd. Nella stessa giornata di venerdì è arrivata il plauso dell’Ocse ala riforma, secondo il quale il Jobs Act può essere «il motore del cambiamento» per un Paese fermo da troppo tempo. Secondo l’Ocse, se attuata pienamente, insieme alle riforme strutturali, questa riforma potrebbe portare un incremento del Pil pari al 6% nei prossimi dieci anni e la creazione di 340.000 nuovi posti di lavoro nell’arco di cinque anni. Speriamo bene.