Sta suscitando molto scalpore il via libera dato dalla Camera dei Comuni del Regno Unito a una nuova tecnica di fecondazione artificiale, messa a punto per prevenire le sindromi del mitocondrio (che colpiscono lo sviluppo del cervello e dei muscoli).
Un figlio e tre genitori, titolano oggi molti giornali. In realtà, se tale tecnica permette la creazione di una cellula con il Dna di tre soggetti biologici diversi (madre e padre naturali più una donna donatrice sana), quest’ultima è anonima e non ha alcun diritto sul nascituro.
Nonostante l’opposizione della Chiesa cattolica e della Chiesa anglicana, il premier conservatore Cameron ha appoggiato la legge e tutti i partiti hanno lasciato libertà di voto. Del resto, già nel 1990 un provvedimento del Parlamento inglese autorizzava esperimenti sull’embrione fino al quattordicesimo giorno (ma li vietava dal quindicesimo).
Mettiamo da parte la discussione sullo statuto dell’embrione, che resta un problema controverso e pressoché irresolubile. Per molti scienziati l’embrione è vita umana, ma non vita personale. Secondo il magistero dei pontefici romani, è persona fin dal concepimento. Sant’Agostino, dal canto suo, sosteneva che Dio infonde l’anima nell’embrione maschile dopo quaranta giorni, dopo settanta in quello femminile (comunque un progresso, perché fino ad allora non era certo che la donna avesse un’anima).
Spostiamo invece l’attenzione sugli interrogativi di ordine etico sollevati dalla possibilità di classificare i soggetti più fragili, o di predire che una persona sarà affetta da una determinata malattia, magari quando essa è ancora in perfetta salute.
Uno studioso laico come Alberto Oliverio non molto tempo fa ne ha sottolinato alcuni. Nel primo caso, c’è il rischio che un individuo possa essere discriminato – sul posto di lavoro, da una società di assicurazioni, da un partner – sulla base dell’elevata probabilità che egli ha di ammalarsi. Nel secondo caso, la scissione tra la capacità di diagnosticare una malattia e l’incapacità di curarla potrebbe avere conseguenze psicologiche devastanti.
La cultura della perfezione, insomma, quella che distingue i “ben fatti” dai “mal fatti”, non è priva di contraddizioni e di costi sociali. Detto questo, non si può tuttavia sorvolare sulla domanda che un filosofo cattolico, Vittorio Possenti, poneva in un saggio di raro equilibrio etico, assai lontano da certe crociate sul corpo come tempio del Signore (il Foglio, 14 dicembre 2009).
La domanda è questa: perché la macchina (cioè la tecnica) non può sostituirsi al Creatore nella fase iniziale dell’esistenza (manipolazione dell’embrione), mentre deve diventare la nostra padrona nella fase terminale (impedendo di affrontare la morte in modo naturale)?
La domanda attende ancora una risposta convincente.