Barack Obama ha presentato il suo penultimo bilancio con l’intento di lasciare un segno. A destra come a sinistra, sia pur per scopi opposti, molti dicono che è una “svolta socialista”. Se si guarda alla forte impronta redistributiva, togliere ai ricchi per dare ai poveri, o al rilancio della spesa pubblica e degli investimenti in infrastrutture, questa impressione appare confermata. Ma una lettura più attenta mostra una realtà diversa.
Il credito d’imposta ai lavoratori poveri è una proposta lanciata già da un repubblicano di primo piano come Paul Ryan. Anche le spese infrastrutture piacciono ai repubblicani e il fondo per finanziarle, alimentato dall’una tantum del 14% sulle imposte che le multinazionali debbono rimpatriare, serve a questo scopo; per di più, una ipotesi simile è stata avanzata da Rand Paul, leader di punta della nuova destra. La rivitalizzazione del bilancio del Pentagono, sia pur bilanciato dalle spese civili è un’avance a John McCain. Insomma, Obama non si è bruciato i ponti. Sa bene che gli sarà difficile avere dalla sua il Congresso, dunque ha lanciato molti ami. Soprattutto, sa bene quanto sia appannata la sua immagine interna, non solo internazionale.
E’ vero, può dichiarare la fine della recessione e l’avvio di un nuovo ciclo di crescita. Però il tasso di sviluppo si chiude nel 2014 con un modesto 2,4% (troppo modesto ha scritto in un editoriale il New York Times). Anche se aumentano i posti di lavoro (il tasso di disoccupazione dovrebbe arrivare al 5,1% nel 2016), le tensioni sociali appaiono profonde e tornano ad assumere la veste di tensioni razziali. Dunque anche in questo caso le imposte sui ricchi, sui finanzieri, sulla nuova plutocrazia americana hanno il sapore di una testimonianza, quasi un lascito per chi nell’area liberal voglia candidarsi a prendere il suo posto.
Un passaggio chiave di questo budget riguarda l’austerità. E per noi è ben più importante rispetto a misure che, al di là delle polemiche ideologiche, si capiscono meglio calandole nella realtà americana (per esempio, quali multinazionali potremmo tassare ora che anche la Fiat è fiscalmente domiciliata all’estero?). Il presidente ha usato tre espressioni: “Dissennata austerità” (che va rifiutata), “investimenti intelligenti” (quindi no a un allargamento indiscriminato della spesa) il che rimanda alla necessità di essere “fiscalmente responsabili”. In soldoni che cosa significa?
Significa innanzitutto che le cifre chiave del bilancio pubblico continueranno a migliorare. Le entrate ammontano a 3.530 miliardi di dollari e le uscite arrivano a 3.990, tuttavia il disavanzo scende il prossimo anno in cifra assoluta da 583 a 474 miliardi e dal 3,2 al 2,5% rispetto al prodotto lordo. Per i leader repubblicani non è abbastanza: “Una proposta che non porta in equilibrio il bilancio non è un piano serio”, hanno dichiarato Michael B. Enzi of Wyoming and Tom Price of Georgia. Il deficit, però, è ormai inferiore a quello del 2008, prima che la crisi finanziaria s’abbattesse sull’economia reale. Cala anche il debito, dal 75 al 73,3% del pil, cioè su livelli che persino i tedeschi possono definire virtuosi.
Dunque, si può crescere senza sballare i conti, e lo si può fare in modo diverso rispetto al modello teutonico. Il presidente americano in questi anni ha sempre cercato di spingere l’Unione europea e in particolare la Germania a rifiutare l'”austerità dissennata”. Non ci è riuscito quasi mai. Adesso l’amministrazione Obama ritiene dissennato mettere la Grecia con le spalle al muro senza darle la possibilità di ripagare il debito con la crescita, come propone Alexis Tsipras, con una formula efficace anche per paesi come l’Italia che sono in una situazione migliore sul piano delle finanze pubbliche, ma hanno una crescita inferiore persino a quella greca.
Prima la crescita poi il debito, invertendo il paradigma imposto finora dalla Germania nell’illusione che la riduzione del debito di per sé bastasse a rimettere in moto l’economia. E’ il percorso seguito dagli Stati Uniti in questi anni: hanno sistemato le banche (e l’auto l’altro grande settore economico travolto dalla crisi), poi hanno speso per tamponare le conseguenze sociali della recessione; deficit e debito sono schizzati in alto; ma è tornata la crescita e negli ultimi due anni le finanze pubbliche sono state rimesse in riga.
I keynesiani lo chiamano uso responsabile del deficit spending. Persino troppo responsabile per Paul Krugman. Perché non si può fare anche in Europa? Una prima risposta è perché il mercato del lavoro e il mercato dei capitali sono rigidi e frantumati sul piano nazionale; l’altro motivo è perché non esiste un bilancio dell’Unione europea.
Flessibilità e apertura dei mercati da un lato, politica fiscale dall’altro, sono due pre-requisiti. Ma inutile negare che nella Europa dell’euro ha agito anche un pregiudizio ideologico (l’ossessione della stabilità monetaria arrivata al punto da favorire la deflazione) accompagnato da una incapacità di leadership. Ciò ha fatto prevale la logica hobbesiana della guerra di tutti contro tutti, cominciata già nel 2008 con la risposta alle crisi bancarie. Questo fattore è stato prevalente rispetto a ogni altra considerazione scolastica.
Anche la politica americana oggi più che mai è lacerata da fratture ideologiche che provocano un alto grado di paralisi decisionale. E Obama non ha la stessa abilità mostrata da Clinton. Tutti, però, hanno capito quale era l’interesse primario (superare la crisi perché la sicurezza economica è premessa alla sicurezza tout court, come recita una dottrina che risale a Jimmy Carter e nessun presidente ha rimesso in discussione) e hanno saputo perseguirlo con pragmatismo e decisione.
Stefano Cingolani