Un generale (Kemal Atatürk) novant’anni fa ha abolito il califfato in Turchia. Un generale (al Sisi) oggi vuole sradicare il califfato e ogni forma di fanatismo religioso dal mondo musulmano. Qualche volta, evviva i generali.
Il discorso del presidente egiziano è però ancora reticente su un punto, che è il punto. L’epicentro della rinascita del radicalismo islamico, infatti, è l’Arabia Saudita. Storicamente, la sua monarchia si è identificata con il puritanesimo beduino della versione wahhabita dell’islam. Un riconoscimento religioso a cui il regime deve la sua stabilità politica.
Le ricchezze petrolifere delle élite al potere sono state usate per finanziare i pellegrinaggi alla Mecca, nonché la diffusione di moschee, scuole religiose e collegi in tutti i continenti. Ciò è stato fatto a beneficio dell’intransigente fondamentalismo wahhabita-salafita, che cerca la sua ispirazione nelle prime generazioni dei seguaci di Maometto.
Ora, è vero che da tempo sunniti e sciiti si scannano tra loro, ma anche le pietre sanno del sostegno che gli sceicchi hanno dato e continuano a dare alle nuove organizzazioni jihadiste globali. Una realtà su cui al Sisi ancora tace, e su cui l’Occidente ha sempre fatto orecchie da mercante. Obama e l’Europa distribuiscono armi ai peshmerga curdi e confetti a Riad. Qualcosa non torna.
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“Frusta fit per plura quod potest fieri per pauciora” (È inutile fare con più ciò che si può fare con meno), è la formula di cui il filosofo e frate francescano trecentesco Guglielmo di Ockham si servì per eliminare molte delle entità ammesse dalla Scolastica tradizionale. Più tardi questa regola, nota col nome di “rasoio di Ockham”, fu espressa anche con la formula “Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem” (Non moltiplicare gli elementi più del necessario). Essa invita a realizzare il massimo risultato con il minimo sforzo nel campo della logica, e a eliminare con tagli di lama affilata le ipotesi scientifiche più complicate. Un principio di semplicità che, se adottato da Renzi, avrebbe risparmiato molte pene agli italiani.
A tale principio si sono certamente ispirati i costituenti svedesi quando – nel 1971 – hanno ridotto le due Camere a una, il Riksdag. “Cosa fatta capo ha”, recita un vecchio proverbio popolare. D’accordo, ma confesso che a me restano ancora ignote le ragioni che hanno consigliato il premier a non proporre l’abolizione secca del Senato (attribuendo, eventualmente, un rilievo costituzionale alla Conferenza Stato-Regioni). Perché, insomma, ha scelto di infilarsi nel cafarnao di una riforma che sta dando solo po’ di visibilità a un drappello di professionisti della contestazione? La domanda, sconsolata, è di un renziano riluttante.