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Pensioni, che cosa dovrebbe fare Boeri all’Inps

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori, pubblichiamo l’articolo del magistrato Domenico Cacopardo uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi

Un nuovo presidente s’è insediato all’Inps: si tratta di Tito Boeri, 56 anni, professore di economia del lavoro alla Bocconi, fondatore del sito lavoce.info, collaboratore di vari governi e anche di questo al quale ha dato il supporto delle sue conoscenze nell’elaborazione del «Jobs act». Ci si aspetta da lui un comportamento ben diverso da quello del predecessore Antonio Mastrapasqua, il prezzemolino romano gradito alla destra e alla sinistra e, soprattutto, una due diligence che rassicurerebbe tutti gli italiani sullo stato della previdenza e dell’assistenza affidate all’ente.

Di Boeri e di Inps s’è occupato su questo giornale, con la solita maestria, Tino Oldani. Se ci torniamo oggi è per interesse privato, visto che chi scrive, già magistrato del Consiglio di Stato è uno dei pensionati «percossi» (termine tecnico-fiscale) dai provvedimenti di Berlusconi e di Monti prima, e di Enrico Letta dopo, con l’aggravante, per quest’ultimo, di avere potuto leggere la sentenza della Corte costituzionale che dichiarava, appunto, incostituzionale il taglio introdotto dal Cavaliere e confermato dal suo successore.

Certo, come dice Oldani, un tecnico come Boeri dovrebbe fare chiarezza sulla commistione tra contabilità previdenziale e gli oneri sociali cui deve far fronte l’Inps. Ma, secondo me, dall’interno del sistema potrebbe approfondire, più di quanto abbia fatto in università, la questione delle cosiddette «pensioni d’oro», anche sotto il profilo della distinzione tra pensioni alte derivanti da alti contributi e pensioni alte derivanti da contributi «virtuali», cioè regalati dalla collettività.

Attaccare le pensioni d’oro senza distinguere la loro origine è il mood dei nostri tempi, nei quali la demagogia fa aggio sulla politica, il moralismo sulla moralità, l’antimafia parlata sull’antimafia praticata, la solidarietà pelosa sulla solidarietà operosa. Purtroppo, in questo come in altri campi, prevale un’informazione così approssimativa da sviare il giudizio di lettori e spettatori, stimolandoli a crocifiggere i percettori di pensioni elevate, in una sorta di lotta agli anziani, a favore dei giovani che non avrebbero, se le cose continuassero così come sono, una pensione dignitosa (una sonora bugia). Innanzi tutto, una breve considerazione sui «diritti quesiti» (cioè acquisiti): se, come sembra auspicare larga parte del circo mediatico, il principio costituzionale fosse fatto saltare, i danneggiati sarebbero, prima di tutto, i lavoratori, quadri e dirigenti, che sono la spina dorsale del sistema produttivo. E sarebbe un’ennesima manifestazione di quella lotta alla ricchezza che riecheggia, nel 2015, gli antichi pregiudizi del mondo social-comunista. Senza la produzione di ricchezza (e senza i «ricchi» imprenditori, direbbe Joseph Schumpeter) non ci sarebbe nulla da distribuire.

Deprimete il desiderio di arricchirsi con metodi legali e vi ritroverete con la società sovietica e con ricchezze illegalmente prodotte. Serpeggia inoltre una specie di condanna nei confronti della sentenza della Corte costituzionale che ha annullato, come dicevamo, il prelievo sulle pensioni per la parte eccedente i 90 mila euro. Parliamo, ovviamente, di un lordo, che si riduce quasi alla metà con la normale tassazione Irpef. La Corte ha rilevato che l’unico strumento di perequazione stabilito dalla Costituzione è quello fiscale: il prelievo sulla parte eccedente i 90 mila euro per i soli pensionati (e non della totalità dei contribuenti) non è ammissibile poiché impone un’imposta sotto forma di prelievo soltanto sui cittadini pensionati e non anche sui cittadini attivi.

La nostra Costituzione, infatti, impone il rispetto dell’uguaglianza di trattamento nel senso che tutti, pensionati e attivi, devono contribuire alle spese pubbliche pagando le stesse tasse a parità di reddito. Non c’è altro da aggiungere, e le furbizie verbali del governo di Enrico Letta gettano una luce sinistra sul senso politico (ed etico) di un personaggio su cui, per anni, abbiamo confidato, come uno dei pochi cavalli buoni della scuderia Italia. C’è un elemento di fondo su cui occorrerebbe riflettere: che i pensionati, d’oro o di latta, sono in gran parte ex lavoratori dipendenti, pagatori puntuali di tutte le tasse e di tutti i balzelli che questo Stato rapinatore ha inventato negli ultimi quarant’anni. Gente che ha stipulato, di fatto, un contratto con lo Stato medesimo e su questo ha fondato le sue aspettative per il periodo successivo all’attività lavorativa. La gran parte di questi pensionati è beneficiaria di un trattamento elevato in ragione di una intensa e qualificata attività lavorativa.

La notizia che la questione stia tornando sui tavoli della Corte costituzionale è una buona notizia: le scorciatoie imboccate furbescamente da vari primi ministri e ministri dell’economia non reggono. Occorrerebbe seguire la via maestra che è quella di dire la verità e di operare in modo moralmente e costituzionalmente legittimo.

I quattrini destinati a pagare le pensioni, non sono quattrini dell’Inps o dello Stato: sono quattrini dei pensionati, accumulati negli anni in cui lavoravano.

Di questo, sembra – ma non c’è da giurarsi – che Renzi si sia reso conto.

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