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Popolare di Milano, Etruria e Ubi. Pregi e difetti della riforma Renzi

Con il Decreto Legge cosiddetto “Investment Compact”, approvato il 20 gennaio scorso, il Governo italiano intende riformare il sistema delle banche popolari italiane, o almeno delle più grandi. Secondo le nuove norme, tutte le banche popolari con un attivo superiore ad 8 miliardi di euro dovranno abbandonare la struttura di società cooperative per trasformarsi in società per azioni. La trasformazione dovrà avvenire entro 18 mesi, attraverso una risoluzione dell’assemblea straordinaria, e comporterà una vera e propria rivoluzione nella governance di alcuni tra i principali gruppi bancari italiani.

Il Decreto è stato presentato tra fortissime contestazioni provenienti sia dal mondo delle banche popolari, ovviamente, ma anche da ambienti politici e sindacali. Dato che il Parlamento dovrà convertirlo in legge entro 60 giorni dalla pubblicazione, è molto probabile che possa subire delle modifiche anche rilevanti, ma il percorso verso il superamento dell’anomalia delle popolari quotate italiane sembra essere stato tracciato.

Tra le istituzioni coinvolte dal provvedimento, si annoverano le quotate Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Banca Popolare di Milano, Banca Popolare di Sondrio, Banco Popolare, Credito Valtellinese ed UBI Banca.

COSA CAMBIA PER LE BANCHE POPOLARI QUOTATE

Innanzitutto, verrà meno il limite al possesso azionario, che il Testo Unico Bancario fissa all’1% del capitale per le banche popolari (salva la possibilità statutaria di ridurlo ulteriormente, fino allo 0,5%). Anche le popolari quotate saranno quindi contendibili, potendo contare sulla creazione di valore come principale, se non unica, arma di difesa da eventuali scalate ostili.

Un’altra rivoluzione riguarderà il meccanismo di voto assembleare. Solo gli azionisti registrati da almeno 90 giorni (definiti “soci” per differenziarli dagli altri azionisti) hanno diritto a partecipare alle assemblee delle società cooperative quotate. Ciascun socio, poi, ha diritto ad un solo voto, indipendentemente dal numero di azioni possedute, e quindi dall’impegno economico nella società. Trasformandosi in SpA, anche le popolari dovranno adottare il principio “un’azione – un voto”, e quindi garantire a tutti gli azionisti la parità di trattamento e di diritti (fatta salva la nuova possibilità offerta dal legislatore italiano di attribuire il maggiorato, che però difficilmente potrà applicarsi alle nuove “popolari spa”, dato l’azionariato almeno inizialmente estremamente frazionato).

IL SUPERAMENTO DI UN’ANOMALIA

La riforma mira quindi a superare un’anomalia che non si riscontra in altri mercati, e che ha contribuito a fare delle grandi banche popolari italiane una figura ibrida, a metà strada tra la grande banca universale e l’ente mutualistico a forte connotazione territoriale. Il tema delle popolari quotate italiane è stato più volte affrontato in questo blog, sottolineando come tale struttura metta a rischio sia il perseguimento dell’obiettivo primario di una qualsiasi società quotata, ovvero la creazione di valore per i propri azionisti, che gli scopi mutualistici tipici di una cooperativa.

Il sistema delle banche cooperative, cui appartengono le popolari, è nato nella seconda metà del 1800 in Germania, dove ha trovato anche la maggiore diffusione. Proprio il sistema tedesco è stato preso come riferimento da molti oppositori della trasformazione in SpA, come modello di efficienza della finanza mutualistica. L’anomalia del sistema italiano, però, risiede proprio nel consentire la quotazione in borsa delle cooperative, cosa che non avviene per eingetragene Genossenschaft (ovvero società cooperative registrate) in Germania.

La quotazione delle azioni delle banche popolari non solo ne influenza notevolmente la governance, ma si pone addirittura in contrapposizione con le finalità mutualistiche che tali istituti dovrebbero perseguire. Gli obiettivi di una società quotata, che deve necessariamente confrontarsi sui mercati internazionali, non possono che essere incompatibili con il forte orientamento di supporto al territorio che dovrebbe caratterizzare le banche popolari e le cooperative.

Di contro, la completa esclusione degli azionisti indipendenti (e quindi del mercato) dalla vita societaria, comporta il rischio che prevalgano interessi non sempre compatibili con la creazione di valore nel lungo periodo. Grazie alla differenziazione tra “socio” ed azionista non registrato, infatti, la grandissima maggioranza dei votanti alle assemblee delle popolari italiane è rappresentata da dipendenti, i cui interessi non sempre coincidono con quelli della maggioranza degli azionisti. Si pensi, ad esempio, all’interferenza nella gestione societaria dell’associazione di azionisti della Banca Popolare di Milano, gli “Amici della BPM”, di origine sindacale e costretta allo scioglimento nel 2012, dopo interventi sanzionatori della Consob, ispezioni di Banca d’Italia ed indagini della Procura. Inoltre, decisioni di fondamentale importanza per la vita della società sono prese da una quota minima, se non insignificante, del capitale sociale. In media, solo l’11% del capitale era presente alle assemblee delle 4 maggiori popolari nel 2014, ed il bilancio 2013 è stato approvato in media solo dal 6,5% del capitale (appena lo 0,38% in Banca Popolare di Milano). È innegabile che un sistema del genere non può essere compatibile con la tutela degli interessi di tutti azionisti, principio fondamentale di una buona governance di qualsiasi società quotata. La politica di remunerazione, ad esempio, è di fatto approvata da dipendenti che possono trovarsi in una chiara situazione di conflitto di interessi, essendo direttamente coinvolti dalle politiche stesse.

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