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Popolare di Milano, Ubi e Bper. Ecco le renzate di Renzi sulle Popolari

E’ giunta l’ora della verità. Altro che sulfurei comunicati stampa che poco o nulla dicevano, e che sono stati smontati o spernacchiati anche da analisti. Altro che pensose spiegazioni sulle ragioni che hanno indotto governo e ministero dell’Economia a intervenire sul credito cooperativo.

Ci voleva uno studio televisivo per comprendere i veri motivi del decreto con cui il governo Renzi ha imposto alle dieci maggiori banche popolari la trasformazione in società per azioni entro 18 mesi, rottamando tra l’altro il voto capitario (una testa, un voto) nelle assemblee dei soci.

L’esecutivo negli scorsi giorni aveva detto: interveniamo perché ci sono troppi banchieri, poco credito, i servizi costano troppo e altre tesi varie e avariate.

Ecco invece la vera ratio del provvedimento dell’esecutivo, su cui Renzi promette: “Sono pronto a mettere la fiducia”, “Non accetto giochini”, ha detto ieri il premier ospite di Porta a Porta. Con il decreto di riforma – secondo il presidente del Consiglio – “si supera un modello di banca molto legata a interessi territoriali. Anche perché qualcuna di queste banche ha anche combinato dei pasticci, basta leggere i giornali locali”.

Pasticci? Solo nelle banche locali?… E ai pasticci non devono pensarci la magistratura per perseguire i reati e la Banca d’Italia per rimuovere, eventualmente, i vertici delle banche?

Ma lasciamo stare queste domandine. Passiamo alle frasi clou di Renzi: “Ci sono dieci banche (popolari, ndr), quelle più grandi, che hanno snaturato il concetto di banca popolare di una volta fondate sul solidarismo cattolico”. Diverso il parere di Assopopolari, l’associazione degli istituti di settore che oggi in un comunicato ha rimarcato, senza fare riferimento alle parole di Renzi: “La dimensione dell’attivo non è incompatibile con la mutualità, come è dimostrato dalla presenza sui mercati internazionali di Banche cooperative con attivi abbondantemente superiori ai 1.000 miliardi”.

Ma Renzi ha deciso: bisogna togliere “le banche di mano ai signorotti locali. Ai soliti noti”, ha detto nel salotto tv di Bruno Vespa.

Dunque è stato approvato un decreto ad personam? E c’erano pure i requisiti di necessità e di urgenza, evidentemente, dato che il governo ha approvato un decreto (con un presidente della Repubblica facente funzione, come Pietro Grasso, visto che Giorgio Napolitano si era dimesso).

Insomma, per punire qualche pasticcio di periferia letto su qualche giornale locale, il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia approntano e approvano un decreto contro le dieci maggiori banche popolari.

Evviva la chiarezza, almeno (anche se la chiarezza ha un paio di corollari su cui ci soffermeremo prossimamente sentendo più campane, come sempre).

La chiarezza consente così di far rientrare nella categoria “fuffa” tutte le spiegazioni ufficiali fornite finora da governo e ministri per illustrare il provvedimento.

Aveva iniziato il premier con lo slogan “troppi banchieri, poco credito”. Slogan (sui banchieri) smontato dall’economista Marco Onado, non troppo critico, anzi, con il decreto in questione: “A parte che pare difficile credere che l’eccesso stia tutto nei vertici delle grandi popolari, il problema – in Europa più che in Italia – è quasi l’opposto”. Onado in un’analisi sul Sole 24 Ore ha rimandato a un recente studio della massima autorità di vigilanza (European Systemic Risk Board) secondo cui il sistema bancario europeo è troppo grande rispetto all’economia reale (334 per cento del Pil, cioè il doppio degli Stati Uniti), soprattutto perché sono cresciute a dismisura le maggiori banche. Insomma, conclude Onado, “prima di lanciare la grande corsa alle fusioni nelle fasce dimensionali medio-grandi bisogna almeno pensarci due volte“.

Poco credito? La frase renziana è stata così smentita dall’economista Giovanni Ferri, già all’ufficio studi di Bankitalia, poi membro di un organismo dell’Eba, ora prorettore dell’Università Lumsa: “Cancellare o modificare i modelli di governance che, come quello cooperativo, lo favoriscono è sbagliato – ha detto in una conversazione con Formiche.net Rischieremmo di farci del male e spingeremmo il nostro sistema bancario a fare più finanza e ancor meno credito tradizionale. Oggi il sistema economico italiano non fa investimenti e non domanda credito, ma prima o poi il ciclo ripartirà e se noi avessimo nel frattempo indebolito il relationship banking ci troveremmo davanti a un disastro”.

Un po’ di numeri emblematici li ha forniti l’associazione di piccole e medie imprese Unimpresa: “Sulla base dei dati forniti dalla Banca d’Italia e dell’analisi dei bilanci delle banche popolari e del credito cooperativo in generale – ha scritto Paolo Longobardi, presidente dell’associazione – il Centro studi di Unimpresa ha stimato che tale categoria ha erogato, nel triennio 2010–2013, 6,3 miliardi in più di credito rispetto alla media del triennio precedente, di fronte a una contrazione pari a 52 miliardi per quanto concerne il resto del sistema bancario”.

Pure il comunicato stampa con cui Palazzo Chigi ha dato conto del decreto ha discettato. Ecco la tesi messa nero su bianco: “La finalità ultima dell’intervento è di garantire che la liquidità disponibile si trasformi in credito a famiglie e imprese e favorire la disponibilità di servizi migliori e prezzi più contenuti”.

Peccato che un economista (Salvatore Bragantini) che ha elogiato il decreto sul Corriere della Sera ha dato tutt’altro intepretazione, avvalorando i rumors che da tempo circolavano nei palazzi non solo romani:  “Il motore (del decreto, ndr) è forse la necessità di ristrutturazione nelle banche italiane uscite male dagli esami Bce – ha scritto Bragantini, già commissario Consob – Per Mps e Carige si parla di aumenti di capitale o fusioni, coinvolgenti banche popolari, ma operazioni essenziali per la stabilità e gradite agli investitori potrebbero soccombere al voto capitario”.

Alla prossima puntata, non solo di Porta a Porta.

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