“Il compito del legislatore, dello Stato e del regolatore dovrebbe essere stabilire un regime di neutralità nei confronti delle forme societarie. Che è peraltro garantita anche dalla Costituzione e questa neutralità può e deve essere ottenuta anche attraverso l’innovazione. Non impigrendosi in un banale cambiamento di ragione sociale dell’impresa banca”.
A parlare è Giovanni Ferri, professore di economia politica all’Università Lumsa di Roma, di cui Ferri è prorettore alla didattica. E lo fa contro il decreto legge di riforma delle Popolari che vuole cambiare governance ai dieci istituti di credito cooperativo italiano con asset sopra gli 8 miliardi: entro 18 mesi dovranno trasformarsi in società per azioni e dire addio al voto capitario (una testa, un voto, indipendentemente dal numero di azioni possedute). Una riforma su cui si sono concentrate critiche e perplessità, come è emerso anche nelle recenti audizioni parlamentari.
Prof, a chi piace il decreto allora?
Sembra che il decreto non piaccia quasi a nessuno e soprattutto non piace alle associazioni di categoria degli utenti. Se non piace al soggetto coinvolto ci può essere un’ombra di sospetto, perché nessuno ama che si vada a casa sua a spostare i mobili. Ma se sono gli utenti a storcere il naso, io mi farei qualche domanda. Mi sembra si stia sviluppando un movimento che suggerirebbe maggiore cautela e per questo abbiamo lanciato un appello per una più approfondita riflessione: sarebbe doveroso, a mio avviso, fare una pausa di riflessione, stabilire una moratoria, perché questa riforma non ha motivo di urgenza.
Il vostro appello poggia su solide basi teoriche, ma quali sono le esperienze degli altri Paesi.
Io e il mio collega Leonardo Becchetti, dell’Università di Tor Vergata, ci siamo fatti promotori di questo appello e abbiamo già raccolto l’adesione di 150 economisti. La nostra idea è che in tutto il mondo diversi modelli di banca (cooperativa e spa) concorrono liberamente sul mercato per conquistare il consenso di clienti, soci e investitori aumentando biodiversità e resilienza dei sistemi finanziari. Come sappiamo alcuni modelli sono più vulnerabili di altri ad alcuni tipi di crisi. Per questo la “biodiversità” del sistema e la libertà di scelta sono una ricchezza fondamentale. Non è un caso che in nessun Paese serio del mondo i governi pensano di togliere dal gioco con un editto un modello di banca fissando arbitrariamente una soglia dimensionale. In Francia, Germania, Austria, Olanda, Finlandia, Canada e in moltissimi altri paesi del mondo esistono modelli di banche a voto capitario che vanno ben oltre la soglia che il governo propone in Italia.
Dunque la pluralità è un valore e va difeso?
Senza dubbio. Non vi è un unico modello di fare banca e le varie forme societarie dovrebbero avere pari riconoscimento e tutela. Dopo tutto, la diffusione delle banche cooperative in Europa corrisponde alla conformazione specifica del capitalismo europeo fatto di pmi e che, come noto, differisce dal modello di capitalismo individualistico anglo-americano. La diffusione di queste forme societarie, come ci hanno mostrato vari saggi di Alesina, non è il risultato di accidenti storici ma risponde ai valori europei. L’esempio più indicativo è la risposta affermativa a due domande: “I poveri sono fannulloni?” e “i poveri sono intrappolati nella povertà?”. Ebbene, alla prima domanda il 60% degli americani risponde di sì, contro solo il 26% degli europei e alla seconda domanda il 60% degli europei risponde di sì, contro solo il 29% degli americani. Perciò, il mutualismo non è un caso: esso discende dai valori degli europei, valori da cui deriva anche l’esigenza di assicurare pari riconoscimento alla banca SpA e alla banca cooperativa.
Però Bankitalia sostiene che il voto capitario può essere di ostacolo grave a eventuali ricapitalizzazioni veloci delle Popolari. Quando le banche assumono una dimensione sistemica, individuata nella soglia degli 8 miliardi, è opportuno che si trasformino in spa per avere più agevole accesso a mercato dei capitali.
E va bene. Però se per gli europei è importante mantenere la diversità delle forme societarie, se questa neutralità della regolamentazione e della legge deve essere garantita si possono immaginare altre soluzioni. Non è che tutto deve diventare spa per pigrizia intellettuale. Una possibile soluzione è immaginare “interventi ponte” da parte di investitori – pubblici o privati – esterni, cui riservare diritti speciali. Una forma di bridge finance che sia calcolabile ai fini dei requisiti di capitalizzazione per superare le fasi critiche che hanno minato l’equilibrio finanziario dell’istituto. Non dobbiamo dimenticare che queste banche si troverebbero nei guai perché hanno fatto credito all’economia in una crisi così profonda e ampia che nessuno avrebbe potuto prevedere, non per fare speculazione finanziaria. In questa ipotesi, parrebbe giustificato ed efficiente mettere in campo anche forme di garanzia pubblica – esempio, una bad bank – o di co-assicurazione privata volte a smussare lo shock eccezionale, che si accompagnino alla ricapitalizzazione individuale della banca.
Le Popolari sono state accusate anche spesso di esercitare il capitalismo di relazione, favorendo amici e potenti nell’erogazione dei prestiti. E anche le inchieste recenti su Banca Etruria e Veneto Banca ne sono testimonianza.
Per mettere nella giusta prospettiva questi favoritismi derivanti anche da conflitti di interesse non dobbiamo mai dimenticarci i vari Ligresti, Zaleski, Zunino, Ricucci, tutti finanziati prevalentemente da Spa. Il capitalismo relazionale è una cosa che unifica il Paese, indipendentemente dalla forma societaria della banca che ne è soggetto.
Per concludere, il governo sta colpendo di fatto il modello bancario che anche nella crisi è stato di sostegno all’economia reale…
Eppure siamo in momento storico cruciale: dobbiamo ricapitalizzare le pmi, senza ricapitalizzarle sarà difficile che ottengano credito e facciano investimenti. Se riusciremo a dotare le imprese di questa agibilità a ottenere prestiti, poi potrebbe non esserci l’intermediario bancario atto a erogarli. Se si trasformano in Spa, si dà alle banche popolari l’incentivo a generare profitti subito, facendo più finanza e meno credito tradizionale, tagliando i costi, le filiali, i rapporti umani e quelli con le pmi. E dunque questa operazione del governo, potrebbe ostacolare il recupero del gap di produzione, circa il 25% di capacità produttiva persa dal 2007. Sta a noi decidere se saremo più poveri del 25% per sempre o se vogliamo riprendere quota. Ma per fare questo c’è bisogno di finanza che sostenga gli investimenti nel sistema delle pmi. Distogliere questo sistema bancario dal finanziamento degli investimenti delle pmi contribuirebbe a sancire l’impoverimento permanente dell’Italia.