Renzi viene in Piemonte, per rendere omaggio a Michele Ferrero e per inaugurare l’anno accademico del Politecnico di Torino. Al premier lascio qualche riflessione da portarsi nella ventiquattrore, pardon, dentro l’i-pad dopo il viaggio sabaudo.
L’ingegneria è al suo punto zero. Gli ordini professionali sono, più che corpi, cadaveri intermedi. Bocciofile, buoni solo per la festa dei cinquant’anni degli iscritti o per il campionato di calcio che è, dell’ordine, il direttivo più ambito. Le tariffe, la responsabilità civile, le cose serie insomma sono sotto agli zerbini che sono poi gli ingegneri stessi che non sono stati capaci di reinventarsi in qualche modo che non sia la professione tradizionale. Erosa, nei margini e nelle competenze, da un mercato globale dove gli ingegneri stranieri, con meno preparazione, vivono dentro a strutture molto più grandi e organizzate avendo l’occasione di lavorare sui progetti – a livello mondiale – che contano.
In Italia, poi, le Università, in questo caso i Politecnici, spesso fanno concorrenza ai liberi professionisti in quel cortocircuito che si innesca quando il cliente italiano medio-furbo, dietro alla parola innovazione, giustifica una richiesta di consulenza al dipartimento universitario da cui spera di ottenere qualità a poco prezzo.
Anche perché, Presidente Renzi, le detrazioni d’imposta per l’attività R&D in Italia non si riescono mai a confermare da un anno al successivo. E così chi può innova, chi è piccolo e non può resta al palo.
Non parliamo del tema della formazione continua dei professionisti. Il solito sottobosco per dare qualche centinaio di Euro a qualcuno. L’ordine si è da poco inventato un sistema di valutazione periodica della formazione del tipo “patente a punti”. Chi non dimostra di avere seguito corsi e seminari, perde punti. Fino a essere squalificato dall’albo. Una cosa che farà inorridire un liberale come lei. Non era il mercato a costringerti ad essere migliore schumpterianamente? Possibile che non riusciamo a toglierci le stimmate delle carte bollate?
E ancora, c’è il tema delle start-up, a lei tanto caro. Possibile sperare di avere valley tecnologiche che sappiano di “Silicon” se noi di Venture Capitalist con le tette grosse non ne abbiamo neanche uno?
Prima di andare alla GM, mentre attraversa Corso Castelfidardo sotto agli scavalchi magnifici col magnifico Rettore, si faccia portare a I3P, l’incubatore d’imprese, e fuori dai convenevoli parli con qualche neo-imprenditore e gli chieda quanto è riuscito a recuperare di capitale di rischio. Vedrà che sono numeri da reddito minimo garantito!
In Italia alcuni danarosi, cosiddetti business angels, alle start-up, eventualmente ecologiste, perché start-up + ecologia fa molto spirito del tempo, preferiscono ancora le pizzerie. Come si cambia questo pelo vecchio al serpente che ci stringe come Laocoonti?
Lei è molto sostenuto da Oscar Farinetti. Ecco, Eataly è una cosa buona, una start-up di successo nell’agroalimentare perché si è radicata sulla forza identitaria del nostro paese ma soprattutto perché ha potuto contare su di un distretto – quello di Alba e Bra – che è ricco ed è stato ricco. Grazie alla Ferrero, di cui lei, appunto, domani andrà a commemorare l’ispiratore.
Non si può andare slow, farsi Achille con i tempi della lumaca divaricando il paradosso di Zenone, senza che ci sia un trucco. Buono finché si vuole. La Ferrero con le sue merendine e snack, da gustarsi fast, con i suoi 8 Miliardi di solidità ha fatto sì che le migliori forze vive di Alba e dintorni rimanessero là dove nascevano. Ha permesso che lì rimasse la coscienza civica che dal Sud, invece, giusto per fare un esempio, emigra anno dopo anno.
Se si vogliono le start-up ci vuole sempre l’azienda grande che traina. Che ha bisogno di tutto, che ha forti radici col territorio e con l’identità, anche se poi vende ovunque globale.
Che start-up possono nascere in Italia se l’Italia, politicamente, esce da tutte le partite importanti: Spazio, Auto, ecc.?