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Quale futuro per i cattolici in politica. Attualità di Augusto Del Noce

Quanti nei mesi scorsi hanno riflettuto sulla situazione dei cattolici in politica, almeno su un punto sono concordi: al pari del Paese, giunti al termine del ventennio di transizione che ci separa dal 1994 e dalla fine della Prima Repubblica, anche i cattolici sono ad un bivio, ad una scelta di fondo ben sintetizzata da questa domanda di Dario Antiseri: “restare inchiodati alla prospettiva funesta e senza futuro di una esangue intellighenzia che, rassegnata al peggio, si è arresa ai fatti oppure rimettersi con coraggio, progetti chiari e concreti e senso di responsabilità sulla strada dei «liberi e forti»? (Corsera del 9 ottobre 2014). In un quadro sociale, economico, politico ma soprattutto culturale piuttosto desolante e desolato, l’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa osserva nel volume “Un paese smarrito e la speranza di un popolo. Appello politico agli italiani”, come “i cattolici da tempo non sanno fare una proposta organica, coerente, unitaria, lungimirante e, soprattutto, chiaramente ispirata alla propria tradizione, alla propria dottrina, inclusa la dottrina sociale della Chiesa, alla propria fede. Una proposta cattolica, insomma”. Il giudizio sulle cause è, se possibile, ancor più duro: “Non l’hanno saputa fare perché troppi tra di loro pensano che non si possa fare e che non si debba fare”. Da qui la necessità, l’urgenza della scelta: se continuare – dopo la stagione della supplenza esercitata dalla gerarchia (il cosiddetto “ruinismo”) – a vivacchiare in una situazione di sostanziale irrilevanza, e che in prospettiva potrebbe portare alla definitiva scomparsa dalla scena politica, o provare invece a invertire la rotta e ripartire. “L’efficacia o l’inefficacia – si legge nel testo dell’Osservatorio – della presenza cattolica in politica dipende sì dalle condizioni generali della società – un tempo religiosa e ora post religiosa – ma soprattutto dipende dai cattolici stessi, dalle condizioni della loro fede, dall’organizzazione della loro cultura teologica e politica, dalla consapevolezza ed omogeneità dei loro apparati culturali”. Insomma se i cattolici vogliono ancora dire la loro, e riprendere il filo di un percorso e di una tradizione che tanto ha dato all’Italia, non dipende che da loro stessi. Ma questo vuol dire, innanzitutto, aver ben chiara la posta in gioco. Il che implica a sua volta la necessità di saper leggere in profondità la storia, il mondo e la società in cui viviamo, per poi mettere a fuoco il giusto atteggiamento da assumere come cornice culturale dentro la quale inquadrare ogni proposta politica. Ed è sotto questo duplice profilo – dell’analisi e dell’atteggiamento – che risulta di straordinaria attualità il pensiero del filosofo cattolico Augusto Del Noce, di cui è ricorso il 30 dicembre il venticinquesimo anniversario della scomparsa. In primis, a motivo del fatto che la società contemporanea è la compiuta realizzazione di quanto Del Noce aveva intravisto con straordinaria lucidità oltre mezzo secolo fa e quando i gli sviluppi che poi si sarebbero verificati erano di là da venire. Come ha giustamente osservato Massimo Borghesi, il tema che più di altri impegnò l’ultimo Del Noce fu quello della “superideologia”. In concomitanza con il crollo del comunismo e la cosiddetta “fine delle ideologie”, il filosofo cattolico divenne sempre più persuaso che una nuova società si era ormai affermata in pienezza: la società tecnocratica, caratterizzata da un potere meramente consumistico che svuotava gli individui riducendoli a mezzi di cui servirsi, privandoli di ogni connotato ideale. Era la concretizzazione piena della “superideologia”, di un pensiero, cioè, che nasconde «dietro questa critica apparente del totalitarismo…un totalitarismo di nuova natura, assai più aggiornato, assai più capace di dominio assoluto di quel che i modelli passati, Stalin e Hitler inclusi, non fossero. Dico si nasconde, ma sarebbe meglio dire che oggi si dichiara abbastanza apertamente; è il superpartito tecnocratico, che attraversa i partiti, che ha in possesso le sorgenti di informazione, che cura la propria ideologia attraverso la casta degli intellettuali…Se ben si guarda, l’avversario che abbiamo oggi da affrontare è questo: e si vedano quanto siano inadeguate tutte le presenti posizioni culturali e politiche perché si sono formate contro avversari che erano diversi e sono lontani». Del Noce continuava così un discorso iniziato anni addietro, quando sullo stimolo che gli veniva da Franco Rodano intraprese la “critica della società opulenta”. Nella sua prospettiva, infatti, “società tecnocratica” e “società opulenta” non sono che due facce di una stessa medaglia. Tre sono gli aspetti che caratterizzano la società opulenta: irreligione come secolarizzazione o desacralizzazione, libertinismo di massa, relativismo integrale. In opposizione alla tesi secondo cui la secolarizzazione come perdita del sacro era la conseguenza dell’avanzata del progresso tecnologico, Del Noce considerava l’irreligione come la causa e non l’effetto della mentalità pantecnicista. A sua volta, l’irreligione non era figlia di dinamiche sociali bensì di un ben preciso processo culturale, “nel senso che al fondo degli aspetti che presenta oggi il mondo occidentale c’è una causalità ideale e propriamente filosofica di cui l’irreligione naturale contemporanea non è che una conseguenza”. La secolarizzazione dell’Occidente ha dunque una radice filosofica, e questa è da rinvenire “nella decomposizione necessaria cui va incontro il marxismo che ha generato come contraccolpo in Occidente l’attuale esito nichilistico riguardo ai valori considerati permanenti e il conseguente sviluppo di una mentalità pantecnicistico-materialistica”. In sintesi, la secolarizzazione e il nichilismo della società del benessere, al cui interno e a causa della quale domina la mentalità tecnologica, nascono come conseguenza del fallimento della cultura che ha tentato di opporsi al marxismo conservandone il momento materialistico, e anzi opponendo ad esso un materialismo compiuto. Sul punto, giova ricordare che nell’affermarsi di questo fenomeno, non poca parte di responsabilità ebbe, per Del Noce, il partito dei cattolici. La miopia culturale della Dc – il non aver messo a fuoco la vera essenza del marxismo per aver assunto acriticamente la lettura neoilluminista della storia contemporanea – comportò l’errore di voler combattere il marxismo sul suo stesso terreno opponendogli un materialismo “buono”, inteso come benessere diffuso. Il nichilismo della “società opulenta” si spiega pertanto a motivo del fatto che in Occidente è stato portato alle estreme conseguenze l’aspetto materialistico del marxismo: fenomeno, questo, che coincide con la massima espansione del libertinismo. L’ingresso sulla scena occidentale della “società opulenta”, che anni dopo un altro grande interprete come il Card. Biffi avrebbe ribattezzato “sazia e disperata”, poneva dunque quella che nella prospettiva di Del Noce allora, e più ancora oggi con lo sviluppo della scienza e della tecnica, era “la” questione innanzi alla quale i cattolici erano chiamati a dire la loro: la questione antropologica.
Se era vero che il marxismo era stato produttore indiretto e inconsapevole di questa società, per Del Noce era escluso che si potesse porre rimedio o arginare lo sviluppo della società del benessere a partire da una rinnovata alleanza tra cattolicesimo e marxismo, come invece auspicava Rodano. Motivo per cui il filosofo torinese nella fase matura del suo pensiero criticò aspramente quel fenomeno dalle conseguenze devastanti a tutti i livelli – ed alla cui affermazione non poca parte di responsabilità ebbe anche certo mondo cattolico – che va sotto il nome di cattocomunismo. Ma era da escludere anche ogni strategia che mirasse al suo “superamento” in senso hegeliano ovvero al suo inveramento. Per Del Noce – e qui veniamo al secondo motivo dell’attualità della sua proposta – non vi era che un atteggiamento da assumere nei riguardi di una società che non aveva (e non ha) precedenti nella storia dell’umanità: quello della “risposta a sfida”. Come nei confronti del marxismo, si tratta qui di vivere e approfondire con rigore la propria posizione di pensiero chiedendo all’avversario di fare altrettanto: sarà poi la storia a decretare il vincitore tra i due contendenti, nel momento in cui una delle due opzioni si rivelasse contraddittoria con le sue finalità. Per il filosofo cattolico l’atteggiamento della “risposta a sfida” voleva dire evitare quattro diverse alternative:
a) posizione tradizionalista: è la posizione di coloro i quali considerano la nuova società in aperto e irrimediabile contrasto con i valori cristiani tradizionali, e pertanto invocano l’intervento dell’autorità politica per il rispetto almeno formale di essi;
b) posizione della Chiesa delle catacombe: qui, al contrario, si respinge il ricorso all’imposizione dall’esterno della verità, per puntare, invece, al rinnovamento dall’interno della società tramite la purificazione personale e l’opera di apostolato. Si tratta cioè di farsi missionari in un mondo ormai scristianizzato, senza però ricorrere al braccio secolare;
c) posizione di coloro che distinguono in modo netto il piano temporale da quello spirituale: secondo tale prospettiva la Chiesa ha una missione di ordine essenzialmente spirituale e non deve farsi promotrice di progetti politici o culturali che abbiano come obiettivo l’instaurazione di una “nuova cristianità”. Solo in tal modo si avrebbe una politica realmente democratica, cioè deideologizzata, e il venir meno della tentazione, per la Chiesa, dei compromessi politici;
d) posizione del progressismo cattolico: è l’atteggiamento di quella teologia che vuole conciliare i dati della tradizione cristiana con le acquisizioni della scienza moderna, ovvero neomodernismo.
Per Del Noce tutti e quattro gli atteggiamenti descritti hanno in comune un errore di fondo, vale a dire l’incapacità di considerare la situazione contemporanea come l’urto tra due opposte antropologie o concezioni della vita, quella religiosa e quella sociologistica (oggi potremmo dire laicista). Qualora invece si avesse chiaro che di ciò si tratta, e non di altro, allora il cattolico dovrebbe perlomeno sentire la necessità di muoversi in tutt’altra direzione. E in tal senso, l’atteggiamento della “risposta a sfida”, nella sua accezione positiva, si può riassumere nell’impegno culturale, quindi politico, per la “restaurazione dei valori”: contro l’esito catastrofico a cui era giunto il pensiero rivoluzionario, la sfida consisteva nella riproposizione del pensiero tradizionale ovvero affermazione del primato dell’essere, dell’intuizione intellettuale e del valore ontologico del principio d’identità, lungo una linea di pensiero che da Cartesio arriva a Rosmini, alternativa a quella Cartesio-Nietzsche che storicamente ha prevalso. Non vi sono insomma che due alternative: “o Chiesa o il nichilismo”. Ma la riaffermazione dei valori tradizionali non significa affatto restaurazione di un ordine temporale cristiano sul modello delle società del passato; lungi dall’essere nostalgico della vecchia alleanza tra Trono e Altare, Del Noce mira piuttosto al recupero del cattolicesimo dentro e non contro la modernità, capace cioè «di reggere alla sfida del pensiero moderno: un cattolicesimo non determinato dalle opposte correnti culturali ma, al contrario, esprimente categorie di giudizio per la comprensione del proprio tempo più valide e adeguate di quelle proposte dal pensiero laico». In tal senso è del tutto inadeguato l’appellativo di “reazionario” con il quale è stato più volte etichettato; accettando la “sfida” della modernità e, in particolare, della società opulenta, egli intendeva piuttosto riferirsi alla frase demaistriana secondo la quale «una controrivoluzione non è una rivoluzione di segno contrario, ma il contrario di una rivoluzione». Nei confronti della società secolarizzata ciò significa, come compito per la filosofia, dissociazione del liberalismo dal libertinismo nella sua versione moderna. A differenza di Maritain Del Noce non considerava la democrazia di origine evangelica, ma un fatto storico e contingente; ciò nondimeno esistono dei valori, quelli del cattolicesimo, che pur essendo immutabili quanto all’origine e al contenuto, hanno tuttavia “bisogno” di incarnarsi nelle diverse epoche storiche. Il rispetto della persona umana e della sua libertà, il rifiuto della violenza e il metodo della persuasione erano per Del Noce le condizioni che, se da un lato non rendono certo cristiana una democrazia , dall’altro sono in grado di garantire quello spazio necessario perché l’individuo possa liberamente aprirsi alla verità e ai valori che da questa discendono. E’ questa, in estrema sintesi, la cifra del “liberalismo cattolico” di Augusto Del Noce, a patto di non assumere tale espressione come sinonimo di “cattolicesimo liberale”, né di intenderla come il progetto di chi voglia contemperare due realtà affatto diverse e distanti tra loro. Sulla stessa lunghezza d’onda di Rosmini, si tratta piuttosto di riconoscere che è il cattolicesimo stesso a portare con sé caratteri fondamentalmente liberali. Il liberalismo politico di Augusto Del Noce è allora e innanzitutto fondato su di un liberalismo etico-religioso perché centrato sulla realtà della persona: questa, e solo questa, ha il diritto-dovere, ad un tempo, di “tradurre” nella storia i principi e i valori trascendenti, e di combattere contro il male che è dentro di sé come possibilità sempre reale: lo spazio in cui si attua tale lotta è ciò che si chiama libertà civile o politica. Il filosofo cattolico ebbe chiaro fin dall’inizio, come dato certo e indiscutibile, l’essenziale storicità della Rivelazione cristiana: il cristianesimo è un evento storico, non un’ideologia o un sistema di pensiero, nè tanto meno un affare di coscienza. Ed è proprio nella riduzione del fatto religioso a foro interno che egli vide il segno del cedimento di tanta parte della cultura cattolica a quell’idea di modernità che storicamente ha prevalso, e che si è sviluppata lungo l’asse Cartesio-Nietzsche. Con la duplice conseguenza della protestantizzazione di fatto del cattolicesimo, da un lato, e della ricerca di chiavi interpretative della storia contemporanea “altre” rispetto a quella cattolica. Ma se all’opposto si tiene ben presente la storicità del cristianesimo, ne consegue che questo non può non avere anche una traduzione politica, nel senso cioè di farsi “polis”, mondo, storia. Quella di Del Noce è allora una “metafisica civile” intesa come una filosofia cristiana che implica e richiede un nesso indissolubile tra pensiero ed esperienza, interiorità ed esteriorità, onde una “propria e personale” riaffermazione del pensiero tradizionale in grado di tradursi, per sua natura, in una “polis” realmente degna dell’uomo. Al di là e prima di ogni programma politico e di quale organizzazione darsi, questa è la sfida che, oggi più che mai, i cattolici sono chiamati ad assumere.



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