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Quei nove trilioni di dollari che spaventano il mondo

Chi sa quanto sia invadente e pervasivo il credito denominato in dollari che banche e investitori nel mercato dei bond hanno concesso ai prenditori non finanziari fuori dagli Stati Uniti non si stupirà nell’apprendere che tale montagna di denaro ha raggiunto i nove trilioni di dollari. La qualcosa ci permette di apprezzare compiutamente i rischi che l’ormai imminente avvio del rialzo dei tassi americani può provocare sul livello globale della liquidità e sui meccanismi di trasmissione della politica monetaria.

Personalmente, conoscendo la generosità dei grandi creditori, ciò che mi ha stupito è stato notare come tale flusso delirante di denaro sia praticamente raddoppiato dal 1996 a oggi. E che abbia continuato a crescere anche dopo il 2008.

Se consideriamo lo stock al netto dei prestiti concessi ai governi si è passati circa dal 10 al 20% del totale dei crediti denominati in dollari, mentre al lordo dei crediti concessi ai governi si è passati dal 20 al 30%. Vale la pena anche notare che lo stock complessivo, che nel ’96 contava poco più di 10 trilioni, ormai è pressoché quintuplicato.

Ciò spiega meglio di ogni ragionamento perché il tema sia finito all’attenzione della Bis (“Global dollar credit: links to US monetary policy and leverage”), che ha dedicato al fenomeno un paper da leggere tutto d’un fiato, atteso che descrive in maniera esemplare lo scenario globale del quale la Fed, e quindi il resto del mondo, dovrà tener conto per le sue decisioni a venire.

“I crediti denominati nelle valute maggiori – osserva l’autore – hanno implicazioni per la stabilità finanziaria e monetaria”, visto che “uno stock sostanziale di prestiti denominati in dollari o euro implica che le scelte di politica monetaria delle banche centrali vengano trasmessi direttamente nelle economie”. Questo sul versante monetario.

Sul versante finanziario, la scelta di indebitarsi in valuta estera può avere effetti diretti sulla stabilità, visto che la decisione di servirsi di una valuta estera può facilitare boom degli asset che finiscono sempre col condurre verso una crisi.

Sia come sia, tale pratica si è diffusa a macchia d’olio, coinvolgendo innanzitutto i paesi emergenti.

Alla metà del 2014 i crediti nominati in dollari fuori dagli Usa alle non banche hanno raggiunto il 13% del Pil mondiale, ben oltre i 2,5 trilioni di crediti denominati in euro e gli 0,6 trilioni denominati in yen, con la sottolineatura che mentre i crediti in euro sono concentrati in Europa, quelli in dollari sono autenticamente globali. Il dollaro americano ha invaso anche quei paesi che non sono dollarizzati, Cina in testa.

Quest’ultima, secondo le stime della Bis, avrebbe in dollari l’80% del totale dei crediti in valuta ottenuti, pari a circa 682 miliardi di dollari a fine giugno 2014. Ma tale crescita ha riguardato anche colossi come Brasile e India. E poi Messico, Corea del Sud, Filippine, Perù e Cambogia.

La novità, che lo studio della Bis illustra, è che una parte crescente di questi crediti non sono un’emanazione bancaria, ma arrivano dal mercato dei bond. Si è assistito, vale a dire, a un notevole aumento delle emissioni di bond denominati in dollari anche da parte di paesi esteri.

In particolare, la ricognizione svolta su 22 paesi negli ultimi 15 anni, mostra con chiarezza come i debitori, spinti dai tassi esteri più bassi rispetto a quello domestico, hanno spinto sempre più sul pedale del credito in valuta per finanziarsi. Un altro esito del peccato monetario degli anni 2000, incoraggiando la creazione di bolle un po’ dappertutto.

Prima della crisi tale mole di crediti vedeva le banche come protagoniste del mercato, quindi nella concessione di credito. Dopo il 2008 invece la raccolta di credito ha visto il mercato dei bond nel ruolo di grandi protagonisti.

Aziende e governi hanno emesso grandi quantità di bond denominati in dollari e le banche si sono limitate a comprarli. Poi, una volta che la Fed ha iniziato a comprare bond Usa, conducendo al ribasso dei tassi, gli investitori internazionali hanno iniziato a comprare questa carta per provare a spuntare qualche punto in più rispetto agli ormai poco fruttuosi titoli americani. Come risultato la quota dei prestiti bancari sul totale dei crediti è diminuita da oltre il 60 al 55% del totale dello stock.

Sicché la montagna di denaro ha iniziato a crescere sempre più, e adesso bisogna farci i conti. In un momento, peraltro, in cui le condizioni internazionali non sono le migliori. Basta osservare il rallentamento di molti paesi emergenti, che anche di recente il Fmi ha osservato, e il calo dei corsi petroliferi, che per molti paesi rappresentano la principale fonte di reddito.

Interessante anche notare come, contrariamente a quanto si possa credere, gli Usa sono titolari solo di 2,3 trilioni di questi 8,6 trilioni di crediti agli operatori non finanziari denominati in dollari. Ciò vuol dire che i dollari off shore rappresentano circa i tre quarti del credito totale. “Questo è possibile perché molte banche non Usa hanno trilioni di depositi in dollari”, osserva la Bis. Che è il modo dei banchieri per dire che il dollaro è di fatto se non di diritto la moneta internazionale.

E poi c’è un’altra circostanza: i residenti Usa sono relativamente più interessati al mercato dei bond esteri denominati in dollari rispetto alle banche americane. Forse perché è dal mercato dei bond che arrivano i migliori rendimenti?

Il fatto che non siano gli Usa a far la parte del leone nella titolarità di questi crediti, non vuol dire però che non ne abbiano voce in capitolo. Ciò che decideranno di fare gli americani della loro moneta, infatti, avrà un effetto diretto su questi crediti altrui. Per dirla con le parole della Bis “c’è solo un federal funds e un solo dollar Libor, ma ci sono due stock di debito in dollari che rispondono molto diversamente a questi tassi di interesse”.

In particolare, lo studio osserva che che “quando il tasso effettivo dei federal funds è inferiore a quello prescritto dalla Taylor rule, i prestiti off shore tendono a crescere, spesso a doppia cifra”. A ciò si aggiunga che la compressione dei rendimenti americani, ottenuto con il QE della Fed, ha avuto sostanzialmente un effetto simile. Pur di spuntare guadagni, gli investitori hanno comprato bond con meriti di credito bassi, esponendosi perciò a più rischi.

Ciò conferma una cosa che sapevamo già: la politica monetaria americana si trasferisce attraverso vari canali in tutto il mondo. Perciò il mondo dovrà farci i conti quando cambierà. A cominciare dai paesi più fragili.

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