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Come rendere davvero popolare il Parlamento

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Dopo la Lega e i grillini anche Silvio Berlusconi ha posto la questione di un voto a maggio con quella sorta di proporzionale deciso dalla Corte costituzionale (con uno sbarramento molto alto all’8 per cento). Anche la minoranza Pd pare non contraria a questo esito perché Matteo Renzi dovrà trattare se non vuole che si formi alla sua sinistra un partito che superi la soglia fatale.

Grecia, Libia, Ucraina possono sembrare ostacoli a questa impostazione: ma tutto il mondo  democratico dimostra il contrario. A cominciare da Antonis Samaras che ha preferito perdere le elezioni con Syriza piuttosto che comprare qualche parlamentare (sport a cui invece quelli che si definivano rottamatori paiono volersi dedicare), proseguendo con Shinzo Abe che, avendo difficoltà in parlamento sul suo pacchetto di riforme, non ci ha pensato un momento ad andare a votare. E così Benjamin Netanyahu nonostante gli scenari di guerra che circondano Israele.

La verità è che l’unica reale forza su cui possa poggiare una democrazia è il suo rapporto con gli elettori: con tutto quel che si può dire di male del programma di Syriza (e da parte mia non mancano le stracritiche da fare) non si può non ammirare il coraggio con cui sfidano la dura ma devitalizzata egemonia della Grande bottegaia Angela Merkel. Ma ciò non sarebbe possibile senza un forte mandato elettorale.

Ma davvero Renzi pensa di potere impostare un incisivo programma di riforme e modernizzazioni con un parlamento delegittimato dalla Corte costituzionale e dal giudice Antonio Esposito che anche grazie alla pilatesca presidenza di Giorgio Napolitano ha decapitato il capo dell’opposizione, con i grillini ben divisi tra quelli che vogliono difendere il proprio (pur dissennato, osservo io) mandato e quelli che vogliono tenersi tutti i soldi da incarico, con la sinistra Pd che ha vinto il congresso responsabile di decidere le liste di un partito che poi – senza andare a una verifica elettorale – ha “cambiato linea”, con l’Ncd non priva di argomenti ma senza alcun vero mandato elettorale, con il caos in Forza Italia, con la Lega lambita dal marasma generale. E con la spiacevole sensazione che nella nostra disgregazione si infilino troppe manine straniere: e questo al di là delle legittime preoccupazioni di alleati per una nazione chiave nel sistema economico europeo e globale, e con un ruolo strategico nel Mediterraneo.

In questo contesto si è arrivati al punto di sottolineare la ghiotta occasione di parlamentari spaventati dall’idea di perdere l’incarico come ottima base di una grande riforma costituente. Ma chi esalta simili argomenti, e la furbizia di Renzi che ne approfitterebbe, non si rende conto di quale sfascio ha prodotto la presuntuosa e insieme codarda guida dall’alto della nazione da parte di Napolitano responsabile di avere portato al 25 per cento un movimento grillino che non propone alcun programma di governo: si vuole farlo arrivare al 51 per cento?

Bando agli indugi e si vada a votare: anche per preservare quel poco che resta di un’istituzione come la Regione. Il voto di Veneto, Liguria, Toscana, Puglia, Marche, Campania e Umbria verrà svuotato se verrà considerato solo un sondaggio su Renzi, con il rischio che parte dei cittadini spaventati o schifati finisca per stare a casa come è successo con le regionali emiliane (37 per cento di partecipazione).

Ma si crede veramente che si cambierà l’Italia trasformando il Parlamento in un’aula sordida e grigia bivacco per le banche d’affari che vogliono speculare sulle Popolari?

Ecco perché le elezioni sono l’unica vera prospettiva di risanamento che ci resta e, nonostante io consideri indispensabile l’assunzione di un sistema bipolare (e forse ancor meglio bipartitico), proprio se avessero “per l’ultima volta” un carattere proporzionale potrebbero costituire la base necessaria per un vero processo costituente.

Naturalmente per attenuare l’effetto dirompente che una campagna elettorale ha inevitabilmente (e l’effetto palude che il proporzionale produce specie nell’Italia della disgregazione), si tratterebbe di fissare prima alcune coordinate su questioni decisive per una vera modifica della Carta: l’assetto istituzionale di fondo (se l’Italia deve essere una repubblica presidenziale o se si può studiare una forma di premierato forte, tra Israele e la Germania), l’assetto delle regioni, da cui dipende anche la sorte del Senato (se rimaneggiarle per tagliare i costi o se pensare a una vera Italia federale con quattro macroregioni) infine l’avvio di una riforma della magistratura che non può partire dalle ferie dei togati bensì dalla questione dirimente: se dobbiamo mantenere una corporazione anomalmente unita o se come nelle migliori democrazie distinguiamo tra giudici assolutamente indipendenti e pubblica accusa la cui “funzione politica” è coordinata dagli organi della sovranità popolare (in una liberaldemocrazia ciò che attiene al “politico” non può essere sottratto a un ruolo di indirizzo delle istituzioni elette). Il problema, in questo senso, sarebbe di risolvere questi dilemmi non in una stanza oscura dove tutti i commi sono grigi (e scambiati non si sa mai con che cosa)  bensì grazie a tre grandi quesiti di un referendum propositivo del tipo di quello che ha rifondato l’Italia permettendo la scelta tra Repubblica e Monarchia.

Insomma un’elezione che ridia dignità e unificazione politica a un parlamento oggi allo sbando (lo si vede da come non viene consultato neppure sulle proposte di guerra in Libia) e insieme un’intesa tra le grandi forze responsabili perché tra due anni si vada a referendum indicativi che aprano la strada alla vera riforma delle istituzioni italiane.

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