Quattro anni dopo la rivoluzione del 17 febbraio, la situazione della sicurezza in Libia è precaria, fra chi avrebbe voluto collaborare con l’Isil (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) e altri soggetti ostili che sfruttano la politica entropica del Paese e la legge delle milizie per farsi strada rapidamente.
L’interruzione di produzione del petrolio, sostanzialmente unica fonte di reddito del Paese, è diventata così pesante che la Libia, facendo alcuni conti, fallirà entro 18 mesi. Secondo certe fonti, il numero di libici che ha abbandonato il Paese supera i 2 milioni, mentre gli sfollati raggiungono le centinaia di migliaia.
Molti hanno accusato la comunità internazionale di non fare abbastanza per assicurare la nascita di una nuova Libia che sia in grado di partire con il piede giusto. In realtà nessuno – inclusi i brillanti e ottimisti leader del governo di transizione della Libia che non vogliono stivali stranieri sul loro territorio – ha riconosciuto la profondità delle crepe createsi all’interno della società libica nei 42 anni del dispotico e psicologicamente dannoso governo di Gheddafi.
Taluni ora asseriscono che solo una minoranza di libici abbia sostenuto la rivoluzione, al momento rimasta incompiuta, con gli islamisti urbani posti contro i tribali “pro-azlam” e contro coloro che desiderano tornare ad un regime in stile Gheddafi.
Tale analisi è semplicistica. Il più grande ostacolo della Libia rimane l’assenza di un governo di unità nazionale disposto a fare ciò che i governi sono solitamente tenuti a fare, ovvero garantire un accesso equo ai beni nazionali attraverso l’istituzione di una sicurezza efficace, governance e rispetto dello stato di diritto.
Affrontare i nemici della Libia – stranieri e nazionali – resterà impossibile senza un governo.
Ecco perché i libici devono impegnarsi per stabilire un dialogo con le Nazioni Unite.
Quando sono arrivata per la prima volta a Tripoli, nel giugno 2013, le speranze di poter aiutare i libici a costruire un Paese che fosse un modello di stabilità e prosperità per il Nordafrica e per il Sahel erano alte. Il governo deli Stati Uniti, da solo, è stato impegnato nello sviluppo e nell’implementazione di decine di programmi volti a migliorare la sicurezza della Libia, la capacità di governance, le competenze giuridiche, lo stato di diritto e la società civile.
Nei miei primi sei mesi lì, abbiamo firmato una mezza dozzina di accordi bilaterali e supportato l’eliminazione delle scorte di armi nucleari della Libia. I nostri inglesi, francesi, italiani e gli altri partner europei erano allo stesso modo energici e determinati.
Ma ben presto abbiamo scoperto che l’assenza di coerenza all’interno del corpo politico ostacolava i nostri sforzi per collaborare con il governo, con profonda resistenza a ogni iniziativa percepita come un vantaggio per le fazioni che concorrevano per la redistribuzione della ricchezza nazionale attraverso il dominio politico all’interno di un ambiente che in molti percepivano come un “chi vince prende tutto”.
Questo non vuole dire che l’ideologia non abbia svolto alcun ruolo nel conflitto interno alla Libia, sebbene non sia il ruolo che alcuni – particolarmente gli esterni – hanno messo in evidenza; i libici sono in linea di massima conservatori, musulmani sunniti che condividono valori analoghi. Le etichette sono inutili e fuorvianti.
Una distinzione più importante agli occhi libici è invece tra coloro che sostengono lo Stato, che sarebbero la stragrande maggioranza dei libici, e quelli che non lo fanno, tra cui Ansal al-Sharia, Al Qaeda e adesso anche Isil. E sono proprio quei libici che sostengono lo Stato che adesso hanno bisogno di riunirsi con urgenza per sconfiggere i loro nemici.
Ho assistito a Ginevra a cosa accade quando i libici si riuniscono, in un ambiente sicuro, libero da pressioni esterne e consapevoli delle sfide cui il loro Paese deve far fronte. Loro si lamentano, litigano, condividono la loro profonda ferita; dopodiché, questi coraggiosi patrioti si incontrano e discutono di ciò che bisogna fare per guarire il Paese e mettere fine agli scontri fra libici.
Per questo motivo continuiamo a sostenere il dialogo Onu di Bernardino Leon, nonostante gli argomenti supportati da coloro che insistono sull’urgenza di combattere l’Isil rendano il dialogo irrilevante. Perché crediamo che nessuna fazione sia in grado di affrontare da sola le sfide della Libia, né di creare quel consenso nazionale che consenta alla comunità internazionale di collaborare efficacemente con la Libia per stabilire la governance e la sicurezza ed iniziare finalmente a costruire il sicuro, prospero Paese che i libici meritano.
Ed è per questo motivo che è importante che i libici che amano la Libia smettano di cavillare e giungano al tavolo. Come ha detto un coraggioso libico coinvolto nei negoziati: “La nostra casa non ha porte o finestre ed è dunque entrato il diavolo. Adesso abbiamo bisogno di stare uniti come una famiglia per scacciare il diavolo”.
È giunto il tempo che i libici realizzino che solo loro possono costruire una nuova Libia; solo loro possono salvare il loro Paese. Coloro che continuano a combattere, che rifiutano il dialogo, devono essere sanzionati dalla comunità internazionale – e noi siamo pronti a farlo. Perché è giunto il momento di lottare per la Libia.
Clicca qui per leggere l’articolo in inglese sul sito del Libya Herald