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Bce, funzionerà il metadone di Mario Draghi?

Sarà vera gloria? L’avvio del Quantitative easing (Qe) ha suscitato reazioni ancora disomogenee: euforia sulla stampa, mentre i mercati rimangono guardinghi. I media sottolineano gli aspetti positivi: il calo degli spread allevia il peso degli interessi sui debiti pubblici, quello dell’euro sul dollaro spinge l’export, così come quello del petrolio riduce la bolletta di un’economia dipendente dall’estero.

Rimangono altrettante incertezze, legate sia alle criticità internazionali, dall’Ucraina all’Isis, sia alle prossime mosse della Fed. Un aumento, tra giugno e settembre dei tassi ufficiali, tenendo conto che già oggi per talune scadenze i T-bond rendono più dei corrispondenti titoli di Stato italiani, indurrebbe i capitali europei a varcare l’Atlantico. La liquidità immessa con il Qe scivolerebbe via, come l’acqua su un piano inclinato: per evitare un ulteriore peggioramento del cambio sul dollaro, che gli Usa non potrebbero consentire, la Bce dovrebbe alzare a sua volta i tassi e sospendere il Qe. Una strategia monetaria a lungo termine, di accompagnamento alle riforme strutturali, volta a riportare l’inflazione ad un livello vicino, ancorché inferiore, al 2% annuo, potrebbe essere messa in seria difficoltà, facendo nuovamente precipitare l’Eurozona nella recessione. Se invece l’economia europea dovesse riprendere subito vigore, questo rischio sarebbe attenuato. Ecco perché i mercati sono così incerti.

Bisogna comprendere se il Qe rappresenta un segmento che completa un disegno organico dell’Unione, oppure è l’ultima ciambella di salvataggio disponibile per porre rimedio alle conseguenze del rigore: bassa crescita ed alta disoccupazione.

I margini di tenuta sociale e politica nell’Eurozona sono sempre più esili: non appena ci si distoglie dalle statistiche economiche e si esaminano i dati politici, emergono criticità impressionanti: in Italia, nelle elezioni del 2013, il debuttante Movimento 5 Stelle è risultato il primo partito politico. In Grecia, Syriza è al governo dopo aver sconvolto il bipartitismo fondato sull’alternanza tra Pasok e Nuova Democrazia. In Spagna, Podemos si colloca nei sondaggi alla pari con socialisti e popolari. In Francia, il Front National non ha mai ricevuto tanti suffragi e destra e sinistra contestano le politiche di rigore. Per questo i governi scrutano le statistiche economiche come se fossero aruspici romani: con fare divinatorio, diffondono malcerto ottimismo.

Le strategie europee compongono una sorta di esagono. Innanzitutto, il pareggio strutturale dei bilanci pubblici, in vista della riduzione del rapporto debito/Pil. Poi, il riequilibrio delle bilance dei pagamenti correnti, con la contrazione della domanda interna e l’aumento dell’Iva finalizzati alla deflazione competitiva. Le riforme, anch’esse strutturali, sono il terzo obiettivo, volto ad accrescere la competitività: flessibilità in uscita dal mercato del lavoro, riduzione dei livelli salariali e modifica della contrattazione, eliminando il livello nazionale a favore di quello aziendale. Il quarto profilo è rappresentato dalle politiche di sorveglianza precauzionale sul sistema bancario, per rafforzarne il capitale ed accelerare l’emersione e la cancellazione degli asset problematici. La politica monetaria è divenuta progressivamente più accomodante, attraverso le T-Ltro triennali e gli acquisti di Abs e Cb privati, cui si è aggiunto il Qe che si estende ai titoli pubblici. Infine, c’è il Piano Junker con 315 miliardi di euro di investimenti nel periodo 2015-2017.

Siamo sul crinale. Il punto è capire se gli ultimi due segmenti della strategia dell’Eurozona, il Qe ed il Piano Junker, sono stati adottati intenzionalmente tardi, solo quando il contesto sociale e produttivo era stato reso sufficientemente flessibile e competitivo, oppure se rappresentano una tardiva presa di coscienza che non solo i prezzi, ma tutta l’economia europea sta scivolando verso il basso.

La strategia del rigore è coerente con i dettami della scuola economica austriaca che va da Hayek a Mises, fino a Rothbard. Secondo queste teorie, la recessione non è che la conseguenza inevitabile di una crescita economica drogata, una espansione smodata di investimenti, salari e valori degli asset determinata dalla manipolazione al ribasso dei tassi di interesse e dall’aumento smisurato del credito e della moneta. Gli Stati e le banche centrali interferiscono sempre, prima drogando la crescita e poi rallentando il riequilibrio verso il basso: più fanno, peggio è. Per uscire velocemente dalla recessione occorre far cadere quanto più rapidamente possibile i salari ed il valore dei capitali aggregati, azioni ed immobili, per ristabilire un livello di costi più basso, coerente con i prezzi che il mercato ritiene vantaggiosi per riprendere i consumi. Solo a quel punto l’economia riparte, risanata. È questa la ricetta del rigore somministrata alla Grecia. Il fatto è che il consenso e la resistenza sociale sono arrivati alla rottura prima che di constatare la esattezza della teoria austriaca. L’ex premier Samaras lamenta l’interruzione del risanamento proprio nel momento in cui se ne stavano cogliendo i primi frutti. D’altra parte, anche in un contesto di coesione sociale eccezionalmente saldo come quello giapponese, la deflazione dei prezzi e la riduzione dei salari sono andate avanti per oltre un decennio, con l’unico risultato di accrescere il rapporto debito pubblico/Pil a livelli stratosferici. Anche in Grecia, Tsipras lamenta che deflazione e bassa crescita rendono insostenibile il debito pubblico. Questo è il secondo limite alle politiche di rigore: quando aumenta la disoccupazione, calano i redditi e si contraggono i fatturati, i debiti contratti divengono automaticamente eccessivi, determinando gravi perdite per le banche. L’accumulo delle perdite causa la contrazione del credito all’economia, con un avvitamento che porta alla depressione. È la debt deflation, secondo Irving Fisher, ad aver causato la crisi americana del ’29. Le fughe di capitali dalla Grecia e dall’Italia, così come il ritiro dei crediti alla Spagna, sono stati determinanti nelle crisi finanziarie dell’Eurozona.

Il Qe sembra contraddire la strategia del rigore, sempre sostenuta dalla Bce: manipolerebbe al ribasso i tassi di interesse, immettendo una quantità smisurata di moneta. Sarebbero, secondo i seguaci della scuola austriaca, i presupposti per una espansione drogata. Il contrasto alla deflazione, che motiva il Qe, celerebbe invece un duplice timore: il progressivo venir meno del consenso verso i partiti e le istituzioni europee che hanno adottato le misure di rigore; la insostenibilità del debito ed il conseguente pericolo di debt deflation. Basta vedere i risultati elettorali italiani ed i conti delle nostre banche, per verificare la assoluta fondatezza di questi ultimi timori.

Come ha scritto Paolo Savona su queste colonne, il Qe avrebbe dovuto essere impostato strategicamente integrandolo nel Piano Junker. Per il momento camminano sghembi, mentre il Fiscal Compact si annacqua. Razionalità limitata, e soprattutto casuale: così va l’Europa.

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