Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Chiudere il Cnel per salvarlo? Un provocatorio paradosso per dare, anch’io, un piccolo (anche se sarò un po’ lungo) contributo, sui futuri destini del Consiglio, lo faccio non come portavoce del Presidente – ci tengo a sottolinearlo -, ma come semplice testimone.
Parto proprio dall’intuizione fondante, cioè l’articolo 99 della Costituzione che, appunto, da vita al Cnel e che in sintesi si può definire come il luogo d’incontro tra capitale e lavoro, per interrogarmi su come questa ancor valida idea, possa essere rivitalizzata.
Innanzitutto occorre capirsi su una questione dirimente sulla materia del lavoro e cioè quella dei diritti e della dignità dei lavoratori e quella della creazione e delle opportunità di lavoro. La questione dei diritti non è marginale tanto che ben tre Papi, in epoche diverse, ci si sono esercitati; la Costituzione stessa, nel suo primo articolo, sottolinea come proprio sul lavoro si fondi la stessa Repubblica (personalmente avrei fatto riferimento alla libertà, ma non sono all’altezza di mettere in discussione le scelte dei Padri Costituenti).
Ci sono, sulla materia, anche i codici Civile e Penale e non da ultimo, lo Statuto dei lavoratori, che appunto si richiama alla dignità degli stessi. Possiamo dire che fin qui l’incontro tra capitale e lavoro – e per la proprietà transitiva, l’articolo 99 della Costituzione – ha egregiamente svolto il suo compito. Dunque non è la questione dei diritti, che comunque ognuno deve vedere tutelati e rinnovati, ad essere chiamata in causa, ma quella della creazione e della possibilità di avere un lavoro.
Scontando una certa approssimazione si può dire che il lavoro si divide in settori protetti e settori esposti al mercato. Nel primo caso il riferimento è prevalentemente a quello “Pubblico” e merita un capitolo a parte (qualche liberalizzazione aprirebbe delle enormi possibilità di creazione di lavoro). Nel secondo caso, cioè quello più attinente al settore “Privato”, non si può non considerare il problema come planetario. La concorrenza in questo settore, anche in questo caso semplificando, si gioca principalmente sui processi d’innovazione e di prodotto. Ma è inutile nascondersi dietro un dito, sulla faccenda pesano i costi e i ricavi per il cosiddetto capitale di rischio e l’insana voglia di preferire l’investimento finanziario a quello produttivo. Con buona pace delle possibili ricadute positive sull’occupazione.
Per competere a livello mondiale, il sistema delle imprese e il capitale devono contare sul massimo della flessibilità, sulla certezza ed esigibilità dei rapporti e del mercato lavoro, sul sistema di credito e sulla “sburocratizzazione”. Però non tutti i lavori e le opportunità sono uguali e tanto meno lo sono i territori dove si sviluppano. Se dovessimo, come dobbiamo, considerare la disoccupazione come un malattia debellabile, mi verrebbe da dire che nessun medico prescriverebbe la stessa medicina sia per l’alluce valgo sia per l’infiammazione del trigemino. È proprio sul territorio, nella singola azienda, che si deve cercare e trovare la cura giusta. Senza il sindacato? Senza la rappresentanza d’impresa? No, al contrario devono essere i principali protagonisti di questa “seconda rivoluzione industriale”.
Dunque è sui salari, sugli orari, sul welfare su tutto quello che fa competitività e crea benessere che si gioca la partita. Una partita che come tutte le partite a squadre, si gioca in due: sindacato e impresa; prestatori d’opera e datori di lavoro. Però c’è sempre qualcuno che vuole tirar dentro una terza squadra, quella rappresentata da Governo e Parlamento. Rimanendo nella metafora sportiva, direi che la squadra delle Istituzioni, al massimo, può fare da arbitro. Insomma, Governo e Parlamento si devono impegnare a rimuovere gli ostacoli alla creazione di lavoro, bonificando e tagliando le leggi sul lavoro e favorendo la competitività (lavoro che poteva fare anche il Cnel).
Mi rendo conto che si tratta di elaborazioni teoriche di un umile cronista-testimone; certamente un’elaborazione teorica di derivazione costituzionale, attraverso appunto il Cnel, avrebbe avuto tutto un altro peso. Ma a Villa Lubin spesso si è fotografato l’esistente a scapito della proattività e del coraggio.
Quando il Presidente Marzano, con tanto di benedizione del Colle, ha avuto il “coraggio” di tentare un rinnovamento con proposte piuttosto concrete, per esempio la riunione dei centri studi delle associazioni presenti al Cnel oppure – intervista al Corriere del maggio 2011 – sulla necessità di riforma dell’Istituto e sulla riduzione del numero dei Consiglieri (da allora sono 64 e non più 121) è stato palesemente ignorato se non osteggiato: alla sfida proposta, molti hanno preferito continuare (e continuano) ad occuparsi di altro.
Dunque il tema non è se far vivere o morire il Cnel, l’idea fondante è e resta buona, l’importante è farla camminare. Dove? Magari nei contratti nazionali di lavoro.