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Perché la Fed non accetterà un euro troppo debole

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E’ sempre il caso di guardare avanti, soprattutto per cercare di prevedere l’effetto delle mosse che si fanno. Per quanto riguarda il Qe, uno dei temi più rilevanti riguarda le relazioni con il dollaro, che riguardano per un verso il tasso di cambio e per l’altro l’impatto di un aumento dei tassi di sconto da parte della Fed.

Per quanto riguarda il primo aspetto, i ripetuti annunci del Qe hanno già determinato un comportamento proattivo del mercato, che ha anticipato gli effetti dell’immissione di liquidità da parte della Bce. Si sono verificate due circostanze, anche temporalmente convergenti: a partire da aprile-maggio del 2014, il vistoso ridimensionamento delle aspettative di crescita nell’Eurozona ha frenato l’afflusso di capitali che si era registrato in precedenza, iniziando ad indebolire l’euro; quindi, le iniziative di ulteriore sostegno monetario preannunciate ed adottate dalla Bce, dapprima con il programma T-Ltro, poi con l’acquisto di asset, Abs e Covered bond, poi esteso ai titoli pubblici con il Qe, hanno indotto gli operatori a prevenire la svalutazione dell’euro comprando subito dollari ed asset cosi denominati. Di fatto, il rapporto tra dollaro ed euro si è portato verso la parità (passando da circa 1,4 a meno 1,08) prima ancora che si desse concreto avvio alle operazioni di immissione di liquidità con il Qe.

E’ ovvio che un apprezzamento del dollaro nuoce all’export americano mentre favorisce quello dell’Eurozona e che un ulteriore scivolamento della moneta statunitense, addirittura verso quota 0,85 sull’euro, sarebbe inaccettabile per gli Usa. Non solo si metterebbe in grande difficoltà l’amministrazione in carica in un periodo ormai molto vicino alle primarie presidenziali, ma soprattutto interferirebbe con il rilancio dell’economia ottenuto con il Qe da parte della Fed che si appresta, sia pure con pazienza, ad elevare i tassi di sconto.

Gli Usa sono finalmente riusciti a ridurre lo squilibrio della bilancia dei pagamenti correnti al 2-2,5% del Pnl, e non ci rinunceranno. La Fed, quindi, attende con calma il consolidamento dei trend economici prima di intervenire, verificando la stabilità dei consumi delle famiglie e la qualità dell’occupazione. I dati aggregati, infatti, nascondono spesso componenti non desiderate: è pur vero che le spese per consumi delle famiglie americane dell’ultimo trimestre del 2014 hanno fatto un balzo notevole verso l’alto, ma è stato solo per via della scadenza delle rate delle assicurazioni sanitarie rese obbligatorie nel 2014 con l’Obamacare.

Così accade per i dati relativi alla disoccupazione: il dato complessivo non misura il numero di coloro che hanno trovato un lavoro solo a tempo parziale, economicamente inadeguato rispetto alle aspettative. Di qui, appunto, la pazienza della Fed e soprattutto la grande attenzione ai dati relativi agli effetti combinati della rivalutazione del dollaro: incide negativamente sull’economia americana sia sotto il profilo della competitività delle merci esportate, e quindi sui fatturati in dollari, sia sotto quello del consolidamento in dollari dei bilanci delle filiali americane che vendono in euro. In questi casi, anche una invarianza del fatturato in euro comporta un ridimensionamento del risultato espresso in dollari. Per gli esportatori europei, che vendono in dollari, avviene l’esatto contrario: il fatturato aumenta per il solo effetto della svalutazione dell’euro.

E’ evidente che, fin da ora e senza neppure scontare gli ipotetici vantaggi di una ulteriore rivalutazione del dollaro sull’euro, l’investimento in titoli del debito pubblico statunitense fornisce rendimenti superiori a quelli emessi dai Paesi più solidi dell’Eurozona. La cautela è dovuta al deprezzamento che subirebbero nel momento in cui le nuove emissioni si allineeranno ai più elevati tassi di sconto decisi dalla Fed. In ogni caso, un flusso di capitali europei verso gli Usa spingerebbe il dollaro ancor più al ribasso mettendo in difficoltà la ripresa americana.

Per l’Eurozona, il Qe potrebbe durare assai poco: è arrivato tardi, non avendo assistito l’economia europea quando ce ne sarebbe stato bisogno, durante la lunga fase di rallentamento arrivata fino alla deflazione. Ora si muove in contro tendenza rispetto alla prospettiva americana di tornare alla normalità dei tassi di interesse. Nell’Eurozona siamo a tassi negativi: sia sui depositi ulteriori presso la Bce, sia sui titoli di numerosi emittenti: è una distorsione molto difficile da giustificare. Forse, a Jackson Hole, la scorsa estate i governatori delle altre banche centrali avranno dato il loro via libera alla quarta frazione della staffetta monetaria, ma nel presupposto ed a condizione di arrivare al massimo alla parità valutaria tra euro e dollaro. Oltre non si va.

A fronte dell’afflusso di altri capitali sospinti dal Qe, nuova liquidità in cerca di impieghi sul mercato americano che spingerebbe ancora più al rialzo il dollaro, la Fed avrebbe a disposizione una soluzione in più rispetto a quelle tradizionali, stampare altri dollari o ritardare l’elevazione del tasso di sconto: avendo in portafoglio titoli del Tesoro americano per ben 2.462 miliardi di dollari, esattamente l’investimento ricercato, potrebbe cominciare a venderli sul mercato.

Una acquisizione stabile di euro da parte della Fed, ad incremento della sua riserva in valuta estera, non avrebbe molto senso: si esporrebbe, davvero inutilmente, a potenziali perdite sul cambio. La Fed potrebbe invece ritirare gli euro, che girerebbe subito alla Bce con un currency swap. In pratica, la Bce si ritroverebbe a dover riacquistare dalla Fed gli stessi euro che aveva appena immesso in circolazione per far riprendere quota all’economia europea.

Speriamo non si arrivi a tanto, ma un dollaro a 0,85 sull’euro l’economia Usa non lo regge: mors tua, vita mea. Se gli investitori europei li vogliono, ci sono pronti in vendita i T-bond della Fed: ma che li comprino usando la liquidità immessa dalla Bce, questo no, davvero non avrebbe senso.


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