La Germania si sta comportando con la Grecia come i Paesi vincitori nella Prima Guerra Mondiale si sono comportati con lei a Versailles.
Keynes si ritirò dalle trattative per protesta e scrisse il celebre pamphlet “Le conseguenze economiche della pace”, spiegando che infliggere danni di guerra, ossia una politica deflazionistica a un Paese stremato sul piano economico avrebbe avuto drammatiche conseguenze sul piano sociale e politico.
Gli storici attribuiscono l’ascesa del nazismo a questo errore di prospettiva.
Gli Stati Uniti non ripeterono l’errore alla fine della Seconda Guerra Mondiale, anzi rovesciarono la posizione fornendo aiuti ai Paesi sconfitti con il celebre Piano Marshall, al quale aggiunsero con lungimiranza anche un abbuono del debito pubblico contratto dalla Germania.
L’Unione Europea, sotto la spinta di una Germania sorretta da pochi altri paesi membri e l’acquiescenza dei paesi fondatori della Comunità Economica Europea, tra cui l’Italia, mostra di non aver capito la lezione della storia.
Questa ignoranza ha già prodotto un allontanamento dagli ideali europei, così ben espressi nei Trattati dell’Unione (ultimo l’art. 2 del Trattato di Lisbona) e quindi non ignorabili, e l’ascesa di forze che, dati i tempi, non hanno carattere né bellico, né dittatoriale (si spera), ma hanno tutte le sembianze della non democrazia.
Tsipras, Le Pen, Salvini e altri sono figli di questo errore di prospettiva.
La Bce di Draghi cerca di liberarsi dei vincoli che le impediscono di incidere in profondità sulla crisi economica europea (e i difetti di quella mondiale), ma per fare ciò accetta di affiancare l’errore degli organi dell’UE, ossia condizionare i suoi interventi al rispetto della politica europea sbagliata, invece di impostare una soluzione come quella che molti Governi diedero alla Grande Crisi del 1929-33 – collocando debiti e crediti di banche e imprese in appositi fondi pubblici – o quelli decisi dagli Stati Uniti e paesi alleati nei confronti dei paesi sconfitti.
Perché ciò avvenga è legato al Dna sociale dei paesi coinvolti, ossia è fenomeno di culture collettive: rigore tedesco e accondiscendenza italiana, per i due poli geografici che ci interessano.
Ho già segnalato in un mio scritto che, per i tedeschi, questa cultura ha radici profonde che si trovano ben espresse nel Piano del ministro dell’economia nazista Walter Funk presentato nel 1936: la Germania è il Paese d’ordine d’Europa; le monete europee devono entrare nella logica che guida il marco tedesco; l’industria la sanno fare loro (con qualche capacità dei francesi) ed è giusto che si concentri nel loro territorio; gli altri paesi (Italia compresa) devono dedicarsi all’agricoltura e ai servizi per rendere sana e piacevole la vita di tutti.
La differenza profonda è che allora intendevano imporre questa filosofia sociale manu militari, ora invece seguono una via economica che l’architettura istituzionale dell’UE consente di perseguire.
I miei amici tedeschi non hanno gradito l’invito a meditare su questi aspetti della convivenza civile e delle tradizioni culturali e artistiche eccelse che molto apprezzo, ritenendolo invece un’offesa.
Eppure è un punto cardine per sciogliere il nodo del futuro dell’Europa, dove il pensiero unico non è accettabile e l’azione da fare nel lungo periodo, iniziando però da oggi, è soprattutto culturale.
Solo attraverso una scuola unica europea che valorizzi la ricchezza delle culture locali e ricerchi un indirizzo comune sul tipo di società che si intende costruire, può sbloccare la situazione.
Le tre spinte esogene – l’abbassamento del prezzo del petrolio, la svalutazione dell’euro rispetto al dollaro e la moneta abbondante – faranno emergere una piccola ripresa produttiva e occupazionale che verrà usata per ribadire la correttezza della politica economica sconclusionata dell’UE, aggiungendo danni a beffa.
Siamo di fronte a mutamenti epocali geopolitici, i cui aspetti economici sono sintetizzabili nella sostituzione del lavoro dell’uomo con quello di macchine elettroniche, l’ascesa del peso demografico negli equilibri globali, l’incessante aumento della ricchezza cartacea e contabile su quella reale e la competizione mossa dai paesi poveri a quelli benestanti che si riflette sul livello di protezione sociale e, quindi, di vita.
Continuiamo invece a parlare di deficit dei bilanci statali in eccesso di decimi di punto, di rientro dai livelli di debito pubblico sul PIL, di privatizzazioni e di riforme del lavoro e della pubblica amministrazione, tutti fattori che aggiungono disoccupazione e malessere sociale.
Possibile che non emerga un leader che invece di chiedere di rispettare formalmente il rigore economico o di rompere tutto ciò che di buono è stato fatto in Europa, spieghi ai cittadini europei che essi devono stare insieme, trovando il modo per rispettare le regole della democrazia e il diritto di chi è in difficoltà a esserne aiutato a uscire, invece d’essere sospinto verso la perdita delle sue libertà?
Vogliamo una volta per tutte riaprire un dibattito su che tipo di società stiamo costruendo e che sembrava risolto dopo le lotte per gli Statuti del XIX secolo e per il Welfare del XX?
L’analisi di Paolo Savona è tratta da scenarieconomici.it