Ancora col fiatone, dopo il lungo viaggio sotto il mare della liquidità, mi trovo di fronte all’ultima quaterly review della Bis che esibisce un articolo dal titolo irresistibile: “Cambia la marea – liquidità di mercato e market-making sugli strumenti a reddito fisso“, firmato da Ingo Fender e Ulf Lewrick.
Lo so che suona esotico, ma il riferimento al cambiamento della marea è perfettamente calzante. Stiamo navigando, più o meno a vista, sull’acqua limacciosa di un credito drogato e i più avveduti non lesinano gli allarmi. Il fragile vascello dell’economia internazionale prosegue la sua traversata lungo il territorio incognito dei tassi negativi, senza mappe utili a evitarne i rischi, guidata dal miraggio di una crescita che prima o poi dovrà arrivare, dicono tutti, sperando nel frattempo che non accada nulla di brutto.
In questa marea montante di incertezza che alimenta la volatilità, sappiamo di certo solo che sotto la marea cangiante si nascondono pericolose secche capaci di farci incagliare, e se ne iniziano a sospettare la fisionomia scrutando nei recessi dei mercati a reddito fisso, come fanno anche gli autori della Bis.
Lavoro meritorio, quindi, utile se non altro a capire cosa accada nei fondali del nostro vivere economico.
Leggendo scopro che è ormai palese “una crescente fragilità e divergenza delle condizioni di liquidità nei diversi mercati del reddito fisso”. Ciò è determinato dal fatto che “l’attività di market-making si sta concentrando sui titoli più liquidi, a scapito di quelli meno liquidi”.
“Questo cambiamento – sottolineano – riflette forze congiunturali (come mutamenti nella propensione al rischio) e strutturali (quali una gestione dei rischi o una regolamentazione più stringenti) che incidono sia sull’offerta sia sulla domanda dei servizi di market-making”.
Sappiamo già che i market makers sono degli intermediari specializzati che agiscono di volta in volta come piazzisti di asset o come compratori/venditori per equilibrare i prezzi delle contrattazioni e che, così facendo, contribuiscono a mantenere la liquidità dei titoli che vengono scambiati sui mercati.
Abbiamo anche visto che tali entità, dopo la crisi del 2008, hanno iniziato a cambiare il loro modo di lavorare. “Questi cambiamenti – spiega l’articolo – i loro driver e l’impatto potenziale che possono avere sui mercati a reddito fisso sono particolarmente interessanti per i policymakers, vista la rilevanza che questi mercati hanno per la stabilità finanziaria”.
Ricordo che i mercati a reddito fisso sono quelli dove si scambiano, fra le altre cose, le obbligazioni sovrane.
Una breve premessa permetterà di apprezzare meglio il senso dell’analisi.
I mercati sono liquidi “quando gli investitori possono vendere o comprare un asset in breve tempo, al costo minore e a un prezzo vicino a quello corrente di mercato”. In sostanza un titolo che abbiamo in mano può essere considerato liquido quando in ogni momento può essere trasformato in denaro contante.
La liquidità, quindi, è ciò che rende i mercati finanziari ciò che sono: ossia casseforti di denaro in potenza che può diventare atto, come direbbero i filosofi, in qualsiasi momento.
Tale miracolo dipende da diversi fattori, che includono la struttura del mercato e la natura dell’asset oggetto delle transazioni. Ma dipende soprattutto dall’aria che tira.
Gli autori distinguono, e non a caso, fra tempi normali e tempi in cui i mercati sono sotto stress. Lo stress può essere determinato da tanti fattori: una brutta notizia o in generale tutto ciò che può provocare una crisi di fiducia. Ma in ogni caso ciò che ne risulta è che la gestione della liquidità tende a complicarsi.
D’altronde non potrebbe essere diversamente: i market makers non vivono sulla luna. Lo stress riguarda, al contrario, innanzitutto loro, che sono i più esposti più degli altri alle intemperie del mercato.
Il mercato dei bond, infatti, è relativamente eterogeneo e ciò riduce le possibilità che i venditori e i compratori si incontrino. Per tale ragione, e in particolare nel mercato dei bond corporate, il ruolo dei market maker è particolarmente rilevante.
Costoro favoriscono l’incontro fra le controparti, o lavorando come agenti dei titoli in vendita o pperando direttamente come compratori e venditori. In tal modo assicurano la liquidità del titolo facilitandone la formazione del prezzo.
Così facendo queste entità si assumono evidentemente dei rischi, a fronte dei quali lucrano profitti che derivano da due canali: quello derivante dall’attività di facilitazione del trading, ossia gli spread che l’intermediario spunta fra domanda e offerta dei partecipanti al mercato, e quello derivante dal profitto di rivalutazione degli asset detenuti direttamente.
Ma ciò implica che la tolleranza al rischio dei market maker sia capace di determinare la liquidità dei titoli. Per dirla in altre parole se un market maker giudica troppo rischioso trattare o immagazzinare un titolo, quest’ultimo resta illiquido, ossia il venditore rimane a secco, con un pezzo di carta in mano che non vuole nessuno.
Questo enorme potere spiega perché i regolatori osservino con crescente attenzione il comportamento dei market maker.
Non che sia facile capirlo. Non ci sono strumenti o dati disponibili capaci di elaborare una risposta chiara. Bisogna affidarsi alla market intelligence, che è una modalità di ricerca poco più accurata dei rumors.
Bene, da ciò che hanno orecchiato gli autori dell’articolo, la sensazione è che i market maker si stiano concentrando sulle obbligazioni più liquide e nei mercati che le scambiano, lasciando sempre più a secco quelli meno liquidi. Insomma: sono sempre meno disposti a correre rischi che non siano adeguatamente remunerati.
In particolare, la liquidità è migliorata notevolmente nel mercato dei bond sovrani, ossia quelli governativi.
Le analisi metriche svolti su questi asset denominati in dollari o euro mostrano che gli spread fra domanda e offerta, quindi una misura efficace del grado di liquidità, sono tornati ai livelli pre crisi. Lo stesso è accaduto con i volumi delle transazione e il loro valore medio.
Più difficile ottenere dati simili per altri tipi di bond, come quelli corporate, solitamente meno liquidi di quelli governativi.
Le analisi lasciano sospettare, tuttavia, che la posizione di debolezza di questi asset sia ulteriormente peggiorata. Bisogna capire perché. “Se i bond corporate – spiegano – sono diventati meno liquidi non è dipeso dai volumi di trading più bassi. Piuttosto, i volumi di scambio non hanno tenuto il passo con l’aumento delle emissioni di debito, riflettendo in particolare le condizioni di finanziamento favorevoli molte economie avanzate ed emergenti“.
Provo a dirlo con parole mie: i corporate bond sono diventati meno liquidi perché ne sono stati emessi troppi, più di quanto la domanda, che pure era guidata dalla fame di rendimento, fosse disposta ad assorbirne. Ancora una volta allentare la politica monetaria ha avuto contemporaneamente l’effetto di facilitare l’emissione di debito rendendo al contempo più appetibile quello più rischioso, e insieme di raffreddare gli entusiasmi dei compratori, che hanno finito, complici i market maker, con l’orientarsi verso il debito sovrano.
I grafici mostrano che dal 2006 al 2015 il debito totale corporate è crescito da circa cinque trilioni di dollari a più di otto, con una larga parte, oltre il 15% di provenienza dai paesi emergenti. Ma non sappiamo quanto sia liquido, questo debito.
La market intelligence ha confermato tuttavia che tale “biforcazione” nel mercato dei bond si sta approfondendo. Molti partecipanti al mercato hanno evidenziato come trattare ampi quantitativi di bond corporate sta diventando via via più difficile. Come esempio viene citato quello del costante declinare della vendita dei cosiddetti Block trades, ossia grossi quantitativi di obbligazioni corporate americane con investment grade.
Come se non bastasse, anche al suo interno il mercato dei corporate bond si sta segmentando. Le contrattazioni si concentrano su pochi titoli liquidi.
“L’aumento della biforcazione – osserva l’articolo – riflette i cambiamenti nel comportamento dei market-maker
e dei loro clienti, sia nell’offerta che nella domanda di servizi di market making. Dal lato dell’offerta, una tendenza evidente è che i market makers stanno concentrandosi su attività che richiedono meno capitale e meno propensione al rischio. In linea con questa tendenza, in molte giurisdizioni le banche dicono che stanno assegnando meno capitale per le attività di market-making e stanno limando i loro inventari, in particolare tagliando le attività meno liquide”.
A complicare il quadro, la considerazione che i comportamenti variano da paese a paese. “Negli Stati Uniti, la quota netta di debito corporate detenuto dagli intermediari, tra cui le cartolarizzazioni supportate da attività come il debito delle carta di credito, è diminuita drasticamente dal 2008. Per contro, le posizioni nette di titoli del Tesoro sono aumentate durante la crisi finanziaria e ora sono diventate positive, in quanto gli intermediari hanno chiuso le posizioni corte (che salgono di valore quando il prezzo di un’attività scende) e hanno aumentato il possesso di obbligazioni”.
Le ragioni di questi comportamenti sono molteplici, e non sto qui ad elencarvele. Quello che interessa sono le conseguenze. E basta un po’ di buonsenso per immaginarle. Ci sono quelle microeconomiche, legate all’aumento dei costi che il concentrarsi delle transazioni provoca per chi emette debito nei segmenti più difficili. E poi ci sono quelle macro, ossia capire “come si comporteranno questi mercati sotto stress”.
Nessuno conosce il futuro, ovvio. Ma io ricordo bene come si comportarono i mercati sotto stress non più di sette anni fa e cosa successe alla liquidità che si pensava ottima e abbondante: evaporò in un attimo.
Sarà per questo che gli autori invitano le autorità a contribuire a dissipare quella che chiamano “l’illusione della liquidità”, ossia il sovrastimare – sbagliando – la liquidità del mercato.
Ma se togliamo al mercato l’illusione, cosa rimane?
Niente: resta a secco.