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Il partito nel partito: metamorfosi di una corrente

Molti, in questi anni, hanno suggerito a Matteo Renzi di emanciparsi dal PD, lanciare un partito nuovo capace di aggregare “al centro”, creare le premesse per il superamento della cruenta contrapposizione destra-sinistra che aveva caratterizzato l’esperienza berlusconiana ed offrire concretamente all’Italia “un nuovo sogno”.

Sirene a cui Renzi non ha mai posto troppa attenzione, sebbene molti dei renziani della prima ora fossero sensibili all’idea tanto da approntarsi, anche culturalmente, per un cambio di casacca ritenuto, all’ora, non solo possibile ma, persino, imminente.

Ma un particolare era sfuggito a tutti, non certo all’ex-Sindaco: senza «smontare» il partito più forte della sinistra europea (il PD), non sarebbe stato possibile -neppure a lui- governare “serenamente” l’Italia.

L’era berlusconiana lo aveva dimostrato ampiamente. E Renzi -che non è Berlusconi- non poteva rischiare “le sabbie mobili” dello scontro.

La scelta non era di campo, ma di metodo. Così quella rottamazione che ai più parve un’operazione tutt’altro che moderata, si sta rivelando un calcolo politico assai prudente, meditato e, perciò stesso, (con)vincente.

Evitare lo scontro e promuovere il rinnovamento. Queste le parole d’ordine del progetto renziano che ebbe inizio con due abili mosse apparentemente contraddittorie ma in realtà sinergiche. Innanzitutto “l’epurazione” di un establishment esangue, autoreferenziale, arcaico per rigenerare la sinistra con un brio di giovinezza, spavalderia e speranza.

Quindi, “l’entrata del PD nel Partito Socialista Europeo”. Una sfida che nessuno aveva azzardato prima, per il timore di “isolarsi” a sinistra ma che a Renzi servì, più di ogni altro discorso, per fugare -con i fatti- ogni sospetto di inaffidabilità ed entrare stabilmente nel cuore del popolo democratico.

Una “presa del potere” gentile ed audace che, a distanza di 15 mesi dalla vittoria trionfale alle primarie, sta strutturandosi non come semplice maggioranza (o corrente) renziana, ma bensì come un vero e proprio «partito nel partito» con tanto di correnti e capobastone: il giglio magico (Boschi), i catto-renziani (Del Rio), gli ortodossi (Bonifazi), la sinistra (Serracchiani-Orfini) ed i renziani di completamento (Simoni).

Anche in questo caso, nessun azzardo, ma la paziente e scientifica attuazione di un progetto politico dalla doppia valenza: interna ed esterna.

Interna, per agganciare i borderline e depotenziare, anche numericamente, la cosiddetta minoranza e, possibilmente, agevolare una diaspora a sinistra. Esterna, per accreditarsi trasversalmente presso tutto l’elettorato moderato dimostrando di essere -nei fatti e con un “proprio” partito- qualcosa di “radicalmente” diverso dalla sinistra (non solo storica).

Un partito tratto dalla costa del PD ma che di PD- c’è da immaginarlo- non avrà niente, né il nome, né l’adesione al PSE.

La quadratura del cerchio!

Renzi non strapperà neppure questa volta, ma asseconderà -rispettoso- i tempi liturgici della politica.

Senza premure ma con lucida determinazione, punterà ad archiviare (per inglobamento) l’eredità berlusconiana ed aprile, da protagonista e senza ostacoli a sinistra, la stagione 2.0 dell’Italia politica.


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