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Iran, tutte le divergenze tra Usa e Israele

A thorn in the ass! (una spina nel sedere!) è una espressione idiomatica americana che viene utilizzata per definire un fastidio forte e prolungato e, negli ultimi giorni, Bibi Netanhyahu, il primo ministro israeliano, ha svolto perfettamente tale ruolo nei confronti del presidente Barack Obama e dell’amministrazione democratica!

UN RAPPORTO CON MOLTI ALTI E BASSI

Non che il rapporto fra i due Paesi sia sempre stato idilliaco. Come tutti i rapporti molto intensi esso ha infatti avuto i suoi alti ed i suoi bassi.

Da parte israeliana lo hanno sempre condizionato i complessi del partner più piccolo che deve di tanto in tanto sottolineare la propria autonomia dal partner più grande con una presa di posizione particolarmente dura.

Da parte americana esso è stato influenzato dalla progressiva scoperta che da un certo punto in poi non erano tanto gli Stati Uniti che guidavano la politica israeliana ma bensì gli israeliani che potevano condizionare quella americana, attraverso l’azione di una lobby il cui peso era cresciuto a dismisura.

Almeno sino ad oggi però non pare che ciò abbia influito sul supporto che gli Usa hanno ininterrottamente continuato a fornire ad Israele. Nonostante i malumori o gli scatti d’ira di vari presidenti americani – memorabile il “Ma chi è qui la grande potenza?” di un Bill Clinton incollerito che abbandona la riunione bilaterale in corso alla Casa Bianca – gli israeliani rimangono sempre per gli Usa i figli della mano destra, qualsiasi sia il colore della amministrazione in carica.

Da un po’ di tempo però questa situazione di compromesso sembra essere entrata in un pericoloso periodo di crisi, innescato dalla diversa valutazione di quello che è, o potrebbe essere, il ruolo iraniano nell’area islamica medio orientale e del Golfo Persico.

VISIONE GLOBALE E VISIONE REGIONALE

Per gli Stati Uniti, per cui fa premio la visione globale della superpotenza, l’Iran è un avversario che si sta rapidamente trasformando in un partner potenziale, già oggi indispensabile, tra l’altro, per contenere prima, eliminare poi, la dilagante minaccia dell’Isis che in questo momento appare, agli occhi di Washington, come il pericolo più immediato.

In questa ottica gli Usa sembrano anche disposti ad una conclusione delle trattative sul nucleare di Teheran che, pur non concedendo agli iraniani il possesso della bomba, permetta loro perlomeno di arrestarsi ad un passo dalla realizzazione.

Israele per contro resta focalizzato su di una ottica regionale e continua a valutare il programma nucleare di Teheran come un problema di pura sopravvivenza, in cui nessuna concessione può assolutamente essere fatta ad un avversario la cui politica – almeno quella declamatoria – rimane minacciosa nei suoi riguardi e che continua a finanziare ed a rifornire sia Hezbollah sia Hamas, vale a dire i suoi nemici più pericolosi e bellicosi.

Così Tel Aviv non ha mai del tutto abbandonato l’idea di uno strike preventivo sulle installazioni nucleari iraniane, pur sapendo che una azione del genere finirebbe per coinvolgere inevitabilmente anche gli Stati Uniti, sia perché Israele non possiede da solo la forza e gli armamenti necessari per portare a termine efficacemente l’azione, sia perché l’immediata e violenta reazione finirebbe comunque con l’essere rivolta indiscriminatamente verso tutto l’Occidente, ed in primo luogo verso il Grande Fratello d’oltre oceano.

Per gli Usa il contrasto ha finito in tal modo con il tradursi in una specie di corsa contro il tempo, in cui il Governo e la diplomazia americana si stanno impegnando per raggiungere un accordo con Teheran sia in un quadro bilaterale, di cui sono espressione le attuali trattative del segretario di Stato John Kerry con gli iraniani, sia nell’ambito multilaterale del gruppo dei 5+1, che mira a chiudere il contenzioso entro il prossimo mese di giugno.

La firma di uno strumento diplomatico sancirebbe infatti la definitiva riammissione dell’Iran nel cosiddetto “concerto delle potenze civili”, rendendo molto più difficile, se non impossibile, qualsiasi ipotesi di reazione armata israeliana.

Gli israeliani per contro, e in particolare la fazione che fa capo a Netanyahu (poiché diverse sembrano le opinioni di un’altra parte dello spettro politico israeliano) pur sapendo di non poter riuscire ad interrompere la trattativa mirano tuttavia a renderla più difficile, a ritardarla quanto possibile, ad ottenere che gli americani induriscano al massimo le loro posizioni evitando qualsiasi compromesso che possa domani aprire uno spiraglio al rischio.

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Giuseppe Cucchi, generale, è stato rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e consigliere militare del presidente del Consiglio dei Ministri.

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