In un recente viaggio in California ho avuto modo di visitare l’open space di Humin, assieme alla project manager della nuova azienda americana Arielle Zuckerberg, sorella di Mark. Humin è un’applicazione che ha terrorizzato me, europea, quindi vintage, ma certo non lei, che trova del tutto naturale che un algoritmo influenzi le scelte di ognuno di noi al punto di determinare quali contatti potenzieremo e quali tralasceremo nei prossimi mesi. Humin infatti rivoluziona le nostre rubriche telefoniche, e le nostre confortanti abitudini, eliminando per sempre il vetusto ordine dalla A alla Z ; unendo le icone del telefono, dei messaggi e di whatsapp, e non operando più alcuna distinzione tra i contatti del telefono, delle mail e dei social network.
Gli amici di facebook e di twitter entrano dunque di diritto tra gli amici dell’ex rubrica telefonica, e vengono ordinati invece che per ordine alfabetico secondo un ordine di importanza determinato dalla frequenza delle chiamate, degli scambi su whatsapp, degli sms (sempre più rari), dello scambio di mail. L’algoritmo suggerisce di volta in volta chi chiamare e chi dimenticare sulla base delle nostre scelte precedenti e del luogo geografico in cui ci troviamo. Il contatto viene visualizzato attraverso una foto e non più un codice alfabetico. Inoltre la app decide anche come ordinare i contatti in termini di vicinanza geografica. Quindi, per me che vivo a Roma, una volta atterrata a New York, il corrispondente della sede Rai negli Usa svetterà in testa rispetto a mia madre, che magari sento solo due volte a settimana (attendiamo di sapere come l’app risolverà il problema delle relazioni extraconiugali, ma questo è un altro discorso) e la configurazione iniziale sullo schermo mi indurrà a chiamare qualcuno che altrimenti non avrei chiamato e viceversa. La pigrizia farà il resto. Questo è solo un esempio di come gli algoritmi possano arrivare alla lunga a determinare alcune nostre personalissime scelte, addirittura affettive, sia pure sulla base di decisioni prese da noi stessi. Precedentemente. Ora, alla luce di questa consapevolezza, cerchiamo di fare un salto ulteriore. E per farlo non possiamo che farci guidare dalla filosofia. “Le ict stanno transdiegetizzando il nostro mondo. E chi disegna e gestisce le interfacce in versione transdiegetica disegna di fatto il nostro mondo e il nostro modo di starci”.
E’ ancora una volta attraverso un nuovo termine, transdiegesi, che il filosofo Luciano Floridi, direttore di ricerca e senior research fellow presso l’Oxford internet institute, autore del libro “The Fourth Revolution – how the infosphere is reshaping reality” ci offre gli strumenti per orientarci nella nostra nuova condizione di esseri onlife, cioè costantemente connessi. Per definire il termine “diegetico”, nell’utilizzo che Floridi ne fa per avvicinarci alla definizione di informazione transdiegetica, il filosofo parte dalle colonne sonore del cinema. In un film in cui la musica è ascoltata dai protagonisti oltre che dagli spettatori, ad esempio nella scena degli elicotteri di “Apocalypse now” o in “Flashdance”, in cui addirittura gli attori ballano e cantano sulle note che anche il pubblico ascolta, la musica è considerata “diegetica”. Cioè vive dentro il film, per gli attori, oltre che fuori, per gli spettatori. Invece, la musica è “non diegetica” in un film in cui non interferisce in alcun modo con l’azione ed è udita solo dagli spettatori, come avviene nella maggior parte dei casi.
Recentemente, si fanno largo innovazioni nel concetto di diegesi. È il caso questo delle nuove serie americane, come House of Cards, in cui i protagonisti ogni tanto si rivolgono direttamente al pubblico, in confidenza, senza essere ascoltati dagli altri attori. Sono salti interno-esterno: in questi casi la diegesi viene usata non diegeticamente. Cioè Kevin Spacey (attore, quindi dentro al film) parla agli spettatori (che sono ovviamente fuori dal film), ma gli altri protagonisti del film non lo sentono. Cos’è quindi che comporta un superamento delle due categorie, diegetico e non-diegetico, cancellandone la distinzione? L’interattività, che si sta diffondendo sempre più nell’ict man mano che aumentano i devices (smartphone, tablets, smartglasses, accessori sportivi connessi…).
Pensiamo ora a come è cambiato nel tempo il modo in cui fruiamo le informazioni in nostro possesso. Io peso 56 kg. Anche se non mi fossi mai pesata i kg sarebbero sempre 56. Con l’esistenza della bilancia, associando un numero al mio peso, ho imparato a gestirlo, a controllarlo. Con alcune tecnologie, ora, il mio corpo può trasferire in internet, in tempo reale, informazioni come il numero delle calorie, le proteine assunte, i carboidrati, e così via. Questo consente alle interfacce di elaborare i dati e restituirmeli. Ma a cosa servono tutte queste informazioni? A progettare. A disciplinare i miei comportamenti per raggiungere un obiettivo. Adottare un’alimentazione bilanciata mi può consentire di correre più velocemente, di escludere gli alimenti a cui sono allergica o intollerante, di nutrire un feto al meglio se sono incinta, di aiutare a combattere un tumore, e così via. I wearable, cioè i dispositivi indossabili, ad esempio i google glass, ci connettono direttamente a internet, trasmettendo e ricevendo dati senza che questi debbano essere digitati da noi su uno schermo. L’informazione dunque si muove dinamicamente, dentro e fuori dalla nostra vita, gestita dalle interfacce, in un processo che Floridi definisce transdiegetico.
Man mano che le tecnologie transdiegetiche soppiantano le altre, decidendo cosa mettere dentro e cosa tenere fuori, a quali informazioni abbiamo accesso e in che modo, disegnano il nostro mondo. Passando continuamente dal reale al virtuale, infatti, le informazioni possono essere gestite e modificate nel primo o nel secondo ambiente con un riflesso immediato in entrambi. A questo punto l’affermazione iniziale di Floridi è più chiara: le tecnologie, che transdiegetizzano il mondo, determinano il nostro livello di accessibilità alle informazioni. Dunque, determinano anche il grado e la misura del potere, che dipende dalla quantità e dalla qualità delle informazioni. In altre parole, chi disegna le tecnologie transdiegetiche ha il potere. “Sta alle istituzioni, sottolinea Floridi, mettere i paletti su come si possano disegnare le ict transdiegetiche; quali siano le sfide morali, educative e sociali che le ict transdiegetiche pongono, quali le giuste policies che dovrebbero guidarne lo sviluppo e la regolamentazione”
Tutto questo in un mondo, anzi, in un’infosfera in cui il confine tra privato e pubblico, sociale e politico, civile e militare è sempre più sfumato.
(Articolo estratto dal n°101 della rivista Formiche)