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La guerra tra due concezioni delle infrastrutture

Al di là degli aspetti giudiziari e politici, occorre riflettere al “sottostante” tra due concezioni di cosa deve intendersi per infrastrutture in un Paese del livello di sviluppo economico e sociale (e dell’orografia) dell’Italia: se “grandi opere” principalmente per la logistica o operazioni ciascuna di piccola portata ma essenzialmente di “manutenzione straordinaria” o di miglioramenti tecnologici e ampliamenti selettivi al parco già costruito in secoli e secoli. Mentre in altri Paesi c’è stato, ed in alcune è ancora in corso, un dibattito per giungere ad una convergenza tra le due “scuole”, evidenziandone le complementare, in Italia è in corso una vera e propria guerra ideologica con ricadute di ogni sorta.

Quattro anni fa il servizio studi della Banca Europea per gli Investimenti (Bei) ha analizzato la situazione con grande cura statistica. I dati affermano da anni che il Nord Europa è dove il fabbisogno di grandi opere è maggiore a ragione del sovraccarico della rete dei trasporti. Soffermiamoci, a titolo indicativo, sul nostro Paese.

In Italia – è vero – pochi investimenti pubblici si accompagnano a un non adeguato livello delle infrastrutture. Su 17mila chilometri di rete ferroviaria, solo il 5,4% è ad alta velocità, mentre in Francia si raggiunge il 6,7% e in Spagna il 13,5%. Il ritardo interessa anche il comparto tecnologico: la fibra ottica risulta ancora poco diffusa e la velocità media per lo scarico dei dati raggiunge livelli pari solo a poco più della metà di quelli francesi.

Gli stessi documenti di finanza pubblica confermano che per gli investimenti delle pubbliche amministrazioni non ci sarà alcun rilancio, almeno in termini di spesa complessiva. C’è, invece, da aspettarsi piuttosto un’ulteriore flessione. È quanto si legge nel Def alla voce del rapporto investimenti fissi lordi/Pil: nel 2013 questo valore si è fermato all’1,7%, peggio di quanto fosse previsto dai governi Monti e Letta (1,8%), mentre la previsione 2014 lo colloca all’1,6%, poi all’1,5% nel 2015 e 2016, all’1,4% nel 2017 e 2018.

Colpisce anche la riduzione degli investimenti nel 2013, con una caduta dell’ordine del 10%, da 29.979 a 27.132 milioni di euro e la contrazione del rapporto investimenti /pil di due decimali di punto da 1,9% a 1,7% La riduzione prevista dal Def riguarda anche i valori assoluti degli investimenti fissi lordi, che nella gran parte sono lavori infrastrutturali. Anche qui la tendenza è tutta in discesa: dai 25.730 milioni del 2014 ai 24.835 del 2015 ai 24.453 del 2016, per poi accennare a una leggera risalita nel 2017 (24.857) e nel 2018 (25.019). Dal 2011, quando gli investimenti fissi lordi ammontavano a 31.907 milioni, al 2014 si sono persi circa 6,1 miliardi di investimenti annui, circa il 20%

È soprattutto il rapporto investimenti fissi lordi/pil a dare però la portata di come la spesa in conto capitale del settore pubblico arranchi ormai da decenni, con un’accelerazione della caduta nell’ultimo quinquennio. Il rapporto investimenti fissi lordi/Pil era del 3,5% nel 1981, quando la politica di debito pubblico era centrale, per poi scendere al 3,1% nel 1991 e al 2,4% nel 2001.

Il PPP viene indicato come strumento di finanziamento dei privati alternativo a quello pubblico, immaginando anche misure di accorpamento delle concessioni e di efficientamento dei lavori da realizzare. Sino ad ora l’esperienza non è stata incoraggiante; in 14 anni si è speso l’8% di quanto la Legge Obiettivo aveva previsto che si sarebbe erogato entro il 2010.

Qualsiasi analisi delle politiche relative alle infrastrutture richiede elementi quantitativi di base; ad esempio, indicatori della spesa per infrastrutture in termini di Pil. Tali elementi quantitativi sono difficilmente comparabili, come rilevato dalle recenti analisi della e della stessa Banca D’Italia. La definizione che sembra più sensata (e che è più frequentemente utilizzata) è quella proposta da Edward Gramlich una ventina di anni fa che, al termiei di una dettagliata rassegna della lettera economica in materia, restringe il campo essenzialmente alle infrastrutture fisiche (strade, ponti, ferrovie, porti, idrovie smaltimento di rifiuti), specialmente se in condizione di monopolio.

Lo stesso lavoro Bei sottolinea che tale definizione include esclusivamente l’infrastruttura “economica” escludendo quella “sociale” (scuole , ospedali). A mio avviso, l’esclusione è molto più netta da quanto appaia nel lavoro Bei poiché da circa trent’anni sono varie forme di capitale “umano” e di “capitale sociale” sono considerate le leve per la crescita inclusiva e lo sviluppo endogeno (per una rassegna, Pieterse 2001; in questa accezione , per il “sociale” come “scuole” e “ospedali” la componente fisica (“bricks and mortar”, mattone e cemento) raramente supera più del 10% della spesa e ciò che conta sono i flussi annuali (ovviamente capitalizzabili) per assicurarne il buon funzionamento.

Circa venticinque anni fa, l’allora direttore del Congressional Budget Office, Alice Rivkin, sollevò in un lavoro molto importante che in un’economia avanzata e matura – Alice Rivkin guardava agli Stati Uniti ma si può fare un ragionamento analogo per l’Europa in generale, e per l’Italia in particolare: le spese infrastrutture fisiche differiscono in misura significativa da quelle che caratterizzano Paesi o regioni in via di sviluppo. Nei Paesi maturi riguardano non tanto la creazione di nuove infrastrutture fisiche quanto l’ammodernamento e la manutenzione straordinaria di quelle esistenti e, di conseguenza, assume un ruolo specialmente importante il dibattito su come contabilizzare i “costi accantonati” (in gergo i sunk costs) mentre, di converso, esternalità e interdipendenze e prezzi ombra di alcuni fattori (e.g. lavoro) sono centrali nell’analisi economica di nuove infrastrutture fisiche.

Queste considerazioni sono utili non unicamente sotto il profilo metodologico ma anche per spiegare, da un canto, il differente grado e la differente natura di dotazione in infrastrutture tra varie aree d’Europa e d’Italia ma anche i differenti effetti della crisi in corso dal 2007 tra il gruppo originario, o quasi, di Stati dell’Unione Europea e gli Stati neo-comunitari.

Nell’UE a 15, in effetti, c’è stata una marcata riduzione della spesa per infrastrutture secondo la definizione di Gramlich, mentre negli Stati neo comunitari la flessione è stata breve e poco marcata. Nel primo gruppo, i programmi di ammodernamento e di manutenzione straordinaria potevano essere posposti; nel secondo, invece, ritardi in questo campo avrebbero reso molto più lunga e molto più difficile la convergenza con il resto dell’UE anche in base ai teoremi fondamentali della teoria dell’integrazione economica.

Nel primo gruppo, infine, c’è stata una rapida espansione della spesa per il welfare (indennità di disoccupazione, ed altri ammortizzatori sociali) che secondo un’interpretazione estesa del concetto di “infrastrutture” è necessaria a mantenere quel capitale umano e quel capitale sociale che a differenza del capitale fisico si deteriora se non utilizzato

Negli anni Cinquanta in Italia sono state realizzate numerose ‘grandi opere’ perché c’era una volontà politica che si fondava su un ampio consenso (ceto politico, imprese, sindacati e cittadini). Allo stesso modo per l’opinione pubblica in passato la costruzione di una nuova opera era per definizione un’opportunità, oggi tale percezione non è scontata. Soprattutto, c’era l’esigenza di costruire l’infrastruttura primaria per lo sviluppo del Paese. A partire dalla fine degli anni Novanta, invece, le esigenze principali sono state per il completamento e l’ammodernamento del parco infrastrutture esistente, un’esigenza molto più complessa sotto il profilo tecnico, molto più difficile da valutare sotto quello economico e finanziario e molto meno attraente ai fini della costruzione e gestione del consenso.

Inoltre, il completamento e l’ammodernamento del parco infrastrutturale hanno dovuto misurarsi con le nuove esigenze in campo ambientale e le pertinenti normative nonché con la sempre maggior carenza di risorse finanziarie che andava a influire sulle scelte politiche. Ciò ha cambiato il complesso del ciclo di progetto, le sue regole di governance e il modello normativo di riferimento.

Cosa auspicare? Un armistizio nella guerra ideologica tra due concezioni e la ricerca della complementarità.

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