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Memorie d’Albione: L’inutile svalutazione della sterlina

Mi torna in mente che è buona prassi diffidare delle speculazioni della teoria economica mentre guardo alcuni grafici dell’ultimo survey dell’Ocse dedicato al Regno Unito che illustrano l’andamento delle esportazioni di questo paese che più di tanti, in questi anni tormentati ha svalutato la moneta.

Emerge con chiarezza che il deprezzamento del cambio non ha per nulla migliorato la performance dell’export inglese, che anzi è peggiorata.

L’indice 100, che misurava la performance delle esportazioni inglesi nel 1977, oggi quota meno di 80, a voler significare che il commercio internazionale, che certamente ha a che fare con il cambio, è un filo più complesso nel suo determinarsi di quanto si possa credere pensando che il cambio è capace di determinarne gli esiti.

Detto in altre parole, è vero, perché è logico, che il tasso di cambio può influenzare il commercio estero. Ma ciò non vuol dire che sia necessariamente reale.

Non è così semplice imprigionare la realtà nella logica. E la realtà del Regno Unito ce lo conferma.

Alcuni dati sul cambio della sterlina con le principali valute gioveranno all’analisi.

Cominciamo dal cambio euro/sterlina. Fino alla metà del 2008 servivano circa 0,675 sterline per un euro. L’esplodere della crisi porta a una sostanziale svalutazione della sterlina, che il 29 dicembre 2008 arriva a sfiorare la parità, raggiungendo il suo minimo storico di 0,979 pound per un euro. Parliamo di una perdita di valore di circa il 45%.

Da allora il trend si è invertito e la sterlina si è molto ripresa, ma non poteva essere diversamente visto dov’era arrivata. Ma ancora nel 2010-11 viaggiava fra 0,8 e 0,9 e solo a metà del 2011 ha iniziato a rivalutarsi fino a 0,77, da dove è tornata a perder valore fino a circa 0.875 di inizio 2013. Ora siamo intorno a 0,73-75, quindi sempre un 7-10% meno rispetto al livello del 2008. E solo perché la Bce ha di molto rilassato la sua politica monetaria, QE incluso.

Se guardiamo al cambio sterlina/dollaro lo schema è simile. ancora nel luglio del 2008 ci volevano quasi due dollari per una sterlina. A gennaio del 2009 ne bastavano 1,4. Oggi siamo nell’ordine di 1,55 dollari per una sterlina, che significa oltre il 20% in meno rispetto al livello pre crisi.

Guardiamo anche al cambio sterlina/yen, comunque istruttivo, visto che la BoJ non è una mammoletta quanto a capacità di svalutazioni.

Bene. A fine luglio 2007 servivano 210 yen per una sterlina. A gennaio 2009 ne bastavano 120. La sterlina ha ricominciato ad apprezzarsi sul serio solo nel 2013, non appena la BoJ ha annunciato il suo QQE. Ora ci vogliono circa 180-85 yen. siamo comunque circa al 10% in meno del picco pre crisi.

Noto infine che la sterlina ha subito una sostanziale svalutazione anche nei confronti del renmimbi cinese di circa il 28% dai 13,5 yuan di luglio 2008 ai poco più di 9 del febbraio 2015.

Questo dato è interessante sottolinearlo. E non ci avrei pensato se non avessi notato un grafico della Survey dove si vede con chiarezza il divaricarsi della performance fra l’export inglese, in costante calo, e quello dei Brics, piatto dal 2008 in poi, malgrado la forte svalutazione della valuta inglese.

Degno altresì di nota è che il declino dell’export britannico vada di pari passo con quello dei paesi del G7, Uk escluso.

Ma se osserviamo più da vicino notiamo un’altra cosa: la Gran Bretagna ha fatto assai peggio di Austria, Svezia, Germania e Olanda. La Germania, peraltro, è l’unico paese che ha un indice in crescita da livello del 1977.

Constatare che la svalutazione non abbia aiutato per nulla l’export inglese ci direbbe poco se ciò si limitasse al fatto che non bisogna farsi suggestionare dalle seduzioni logiche dell’economia. In ogni caso è buona cosa chiedersi perché l’assioma “svaluto quindi esporto” non abbia funzionato per gli inglesi.

La risposta la trovo in due grafici, messi a disposizione da Ocse, dove si misura l’andamento del valore aggiunto dei settori cosiddetti “tradable”, ossia orientati allo scambio a distanza, e i flussi di export netti che essi hanno originato.

Degna d’attenzione, in particolare, l’andamento della curva del settore manifatturiero, che nel 1992 viaggiava sopra il 14% del valore aggiunto globale lordo e nel 2013 è arrivata sotto il 10%. Andamento declinante anche per il settore Oil&gas, che stava intorno al 6% e ormai viaggia sotto il 2%. In controtendenza, il settore dei servizi finanziari, poco sopra il 6% nel 1992, è arrivato a sfiorare il 10% nel 2009 per poi anch’esso declinare fino a circa l’8%.

Se dal grafico del valore aggiunto andiamo a vedere quello dell’export netto, notiamo un’altra singolarità. Il reer (real effective exchange rate) fatto 100 il livello del 1992, ora quota intorno a 85, a significare una svalutazione reale della moneta di circa il 15%. A fronte di ciò il settore manifatturiero ha perso circa il 40% del suo valore aggiunto globale, in termini di export netto, così come anche quello Oil&gas. Al contrario, il settore finanziario ha visto crescere il suo peso specifico fino a circa il 30%.

Ciò mi lascia sospettare due cose, ossia che gli effetti della svalutazione sull’export netto dipendano dalla composizione dei settori dell’economia nazionale. Nel caso inglese, ad esempio, il calo generale dei prezzi energetici può aver impattato sull’export netto assai più della svalutazione. Poi che la svalutazione sembra abbia giovato a banche e broker, più che ai produttori di beni o materie prime. Poiché però il manifatturiero ha ancora un peso rilevante sull’economia inglese, il saldo per l’export è stato comunque negativo.

Insomma: se qualcuno pensava che svalutando la sterlina le esportazioni sarebbero migliorate ha sbagliato i suoi conti.

Forse non conosceva l’economia inglese.

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